Cos’è il well-being hushing e perché non aiuta le aziende

Come e quanto un’azienda dovrebbe comunicare le iniziative che promuove per il benessere delle sue persone? Una domanda solo all’apparenza banale.
Ogni realtà organizzativa ha la sua cultura e le sue regole, la sua presenza sul mercato, i suoi processi. Aspetti, questi, che necessariamente influenzano la risposta che si può dare all’interrogativo. Va tuttavia aggiunto un elemento all’equazione. Non si tratta solamente di capire come e quanto un’azienda comunica. La comunicazione – che sia interna o esterna – non può infatti essere valutata al netto di ciò che è – o non è – il suo contenuto. Cosa comunico? Oppure, cosa non sto comunicando? Azioni e progetti rivolti al benessere psicologico autentici e di valore, oppure iniziative di facciata?

Nel momento in cui un’azienda comunica – specialmente esternamente – attività di well-being che non hanno un’effettiva messa a terra e che, di fatto, non migliorano il benessere complessivo delle persone, parliamo di well-being washing. Eppure, esiste un concetto ancora poco conosciuto ed esplorato, che è il suo esatto opposto: il well-being hushing. Mutuato dalla sfera green, richiama i casi in cui, pur facendo molto per le proprie persone e per favorire concretamente il loro benessere, l’azienda sceglie di non dare risonanza alle sue iniziative. Perché? Possiamo individuare tre principali motivazioni.

Focus rivolto al proprio interno

“Non mi piace mettere i manifesti” mi ha detto una volta un Amministratore Delegato di un’azienda, parlando della possibilità di comunicare esternamente le tante lodevoli iniziative che stava implementando.
Molto spesso, a porre un freno è proprio il top management. Nell’idea che “chi deve saperlo, lo sa”. Un’azione ha certamente valore di per sé e non in virtù di quanto o come viene comunicata, ma la comunicazione può generare ulteriore valore. Se tuttavia in una realtà organizzativa prevalgono valori come umiltà e modestia, è facile che le informazioni relative alle iniziative di well-being possano rimanere tra le mura di quell’azienda.

Scarsa consapevolezza

I programmi di well-being non impattano solamente sulla singola persona che ne usufruisce. Favoriscono una cultura organizzativa accogliente e sensibile e hanno – in potenziale – delle ricadute positive anche all’esterno. Spesso, tuttavia, manca la consapevolezza in tal senso. Specialmente nelle piccole e medie imprese, che ancora faticano a cogliere l’opportunità di comunicare esternamente quanto si fa per le proprie persone. Non solo in ottica di responsabilità sociale ma specialmente di employer branding. Secondo i dati 2023 dell’Osservatorio BVA Doxa-Mindwork sul benessere psicologico nelle aziende italiane, 7 persone su 10 scelgono un’azienda anche sulla base dell’attenzione a questi temi. Comunicare esternamente le proprie iniziative, permette pertanto di attrarre talenti ed essere più competitivi sul mercato della ricerca del personale.

Timore di essere accusati di well-being washing

Conosco più di un HR che mi ha confessato di non voler comunicare esternamente le iniziative promosse in tema di benessere per non rischiare di farle percepire come attività di well-being washing. Specialmente in quei settori – come la consulenza e gli studi legali – in cui lo stress percepito è alto e il bilanciamento vita-lavoro spesso precario. Progetti di valore sono rimasti silenti per la paura di non essere compresi, apparire insufficienti o poco coerenti con l’aria che normalmente si respira in un dato contesto. Occasioni perse per dimostrare che le cose – per lo meno in determinate realtà – stanno cambiando.

Non serve mettere in piedi iniziative stratificate a prova di qualsiasi tipo di critica. Anche perché è impossibile. Come in tanti altri ambiti, è essenziale comprendere che l’importante è cominciare, dimostrare impegno e trasmettere quanto si crede nella causa. È un percorso. Ed è tale anche in virtù del fatto che lo si aggiusta strada facendo.

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