Paralimpiadi 2024: Martina Caironi è pronta per le qualificazioni

Prossima fermata Parigi 2024. Martina Caironi, classe 1989, due ori e un argento alle Paralimpiadi e medaglia d’argento agli ultimi mondiali, punta a qualificarsi per i prossimi giochi iridati, ma dal momento che corre veloce guarda anche oltre la carriera sportiva: “L’obiettivo a breve termine sono le Paralimpiadi di Parigi e poi vediamo. Il mondo paralimpico sta crescendo molto e continuerà a farlo in futuro. Quello che auspico è di avere gli strumenti giusti fin dall’inizio. La vera inclusione, che può partire anche dallo sport, poi arriva in tutta la società. È importante dare ai bambini con disabilità la possibilità di avere questi strumenti per includerli nelle attività sportive, costruendo così la loro autonomia e l’integrazione nei gruppi di coetanei”.

Sei sempre stata vicino ai giovani, portando la tua storia e il tuo esempio nelle scuole. Che cosa vuoi lasciare in questi ragazzi che inseguono il grande sogno dello sport, di arrivare un giorno alle Paralimpiadi?

Ci sarebbero molte cose da dire, tanti messaggi da poter lanciare. Io a tutti quegli atleti che vogliono iniziare a far sport paralimpico dico che è importante non fermarsi alla prima difficoltà. Ci siamo passati tutti: non è facile iniziare a fare sport. Gli allenamenti intensivi sono duri sul corpo e sulla mente, inizialmente si ha dolore nei muscoli perché non siamo abituati a grandi sforzi, ma piano piano la fatica scompare e lascia il posto a una profonda passione. Avere un obiettivo è centrale, la determinazione può portare a performances prestanti, così come avere gli strumenti giusti. È anche per questo che mi batto; il mio appello va a chi fornisce questi strumenti, gli staff e il governo. Quando la persona è messa in condizioni ottimali, il passo da compiere è veramente piccolo. E i risultati, di conseguenza, arrivano.

Come hai capito che lo sport era la strada giusta per te?

Devo dire che la mia passione per l’atletica è nata gradualmente. Nel 2007 ho avuto l’incidente ed è stato anni dopo, nel 2010, che ho ripreso l’attività fisica, senza però ambizioni agonistiche. Poi, l’anno successivo, mi sono trasferita in Spagna e lì è scattato qualcosa. Ho iniziato a frequentare ambienti sportivi votati all’atletica, come palestre e campi. Ma è stato il lato umano dello sport, i suoi valori, le persone che già prima di me avevano questa passione a trasmettermi l’amore per l’attività. Come dico spesso, la fame vien mangiando: più sono stata immersa in quel mondo e a contatto con quelle persone, più ho compreso la bellezza dello sport. Allora, ho deciso: ho iniziato a gareggiare. Sono arrivate vittorie, record battuti, medaglie e tanta soddisfazione. Anche la tecnologia ha aiutato: con protesi sempre più innovative, sono riuscita a migliorare le mie prestazioni e ad avere il successo che agognavo.

L’incontro con Oscar Pistorius, come hai raccontato più volte, ti ha cambiato la vita: che cosa ti ha lasciato?

Oscar Pistorius l’ho incontrato in varie situazioni, anche di persona quando ho cominciato a gareggiare ad alto livello. Ma è stata la prima volta che l’ho visto, nel 2008, a Bergamo, che mi ha mostrato una prospettiva nuova sullo sport e, forse, sulla vita. Mio padre mi regalò il suo libro. In quegli anni non c’era un grande utilizzo dei social e anche le informazioni in internet su atleti paralimpici erano molto scarse, non trovavi quasi niente di quello che fortunatamente oggi è disponibile. Per cui io non avevo mai visto che una realtà simile potesse esistere. Fu bellissimo. Capii che la diversità ti può portare anche su quelle strade che sembrano impossibili.

Londra 2012 e Doha 2015 sono stati degli spartiacque della tua carriera: una medaglia d’oro alle Paralimpiadi e un record del mondo ai Mondiali. Che cosa hai provato in quei momenti?

A Londra è stata la prima medaglia d’oro e, come dice il proverbio, la prima non si scorda mai dice ridendo Martina Caironi ad Alley Oop.
L’emozione fu fortissima e inaspettata. Quella medaglia mi ha cambiato la vita, perché da quel momento ho iniziato ad ascoltarmi davvero, a capire il motivo per cui avessi l’oro al collo. Vissi un misto di felicità, tantissima, confusione e sorpresa.
A Doha fu un po’ diverso, perché ricordo come mi sentivo quel giorno: determinata ad andare veloce. Era piena di energie, finalmente stavo gareggiando contro un’avversaria italiana. Quando però tagliai il traguardo e vidi il risultato, quel 14 secondi e 61 centesimi, capii di averla fatta grossa, di esserci riuscita. Non ero mai scesa sotto i 15 secondi, ma quel giorno successe. Era tutto perfetto: il clima, il tifo, la forza fisica. Tutto era al posto giusto.

Sei anche tra le protagoniste di un libro, “Allenarsi alla vita. Sport e life skills”, edito da Erikson. Cosa rappresenta questo progetto?

Nel libro, oltre alla mia testimonianza, è presente l’analisi di una psicologa e una nutrizionista. Ho raccontato la mia storia, il mio percorso. Della sera dell’incidente ricordo quasi tutto: l’impatto, il dolore, la chiamata di mio fratello a nostro padre. Poi, dall’arrivo dell’ambulanza, invece, rimane tutto sfocato. Quando mi svegliai nel letto d’ospedale avevo già subito l’amputazione, e la mia vita era cambiata irrimediabilmente. La convalescenza è stata lunga e dolorosa, ricordo le suture che dovevano rimarginarsi. La prima protesi è arrivata dopo mesi e ci è voluto del tempo per abituarsi a quell’oggetto che mi sembrava all’inizio così ingombrante. Ma stavo recuperando una normalità, la mobilità, stavo ricominciando a vivere. Grazie allo sport, negli anni, ho condiviso spesso la mia esperienza, come faccio in questo libro, per mostrare agli altri che è davvero possibile voltare pagina e ricominciare. Ho voluto trasformare il dolore in qualcosa di buono. Spero che la mia sofferenza non sia stata vana; voglio dimostrare tutti i giorni che si può ribaltare il destino, o la sorte, si può dare uno schiaffo morale a ciò che ti ha ferito. Se hai avuto un trauma, come il mio incidente, e riesci a capirne l’importanza, puoi davvero fare del bene, essere un aiuto per gli altri. Questo libro non è rivolto solo ai circuiti sportivi, ma anche alle scuole: testimoniare è fondamentale per cambiare la cultura della nostra società.

E tu sei appunto molto attiva in questo campo, anche sui diritti delle donne. Cosa significa, in questa società, essere una donna con disabilità?

Io penso che ognuna di noi dovrebbe essere sensibile al tema, perché già il semplice fatto di essere donna ti fa vivere la condizione tutti i giorni. L’esser donna con disabilità la vivo molto tranquillamente, perché ho scelto un ambiente – lo sport – sano, dove non esiste la discriminazione né di genere né sulla base della disabilità. Ovviamente però sono consapevole che questa sia una realtà felice. Il mondo non è fatto di ovatta. Appena si esce da questi contesti, si può trovare delle discriminazioni legate a retaggi culturali e a pregiudizi di matrice patriarcale, o a pura ignoranza. Il fatto che una donna debba spesso fare uno sforzo in più per raggiungere lo stesso risultato di un uomo ne è una chiara dimostrazione. E quando succede, mi viene ancora più voglia di lottare e di conquistare nuovi diritti, sulla scia di quello che hanno fatto le nostre predecessore.

Quanto è importante, per sensibilizzare alla disabilità, la giornata del 3 dicembre?

Il 3 dicembre è un’occasione per riflettere: sui temi legati alla disabilità, sui diritti conquistati, ma anche su quello che manca, che ancora oggi ci sfugge e per cui dobbiamo lottare e impiegare le nostre energie. Io, da atleta paralimpica e persona mediaticamente esposta, tutti gli anni faccio la mia parte in varie conferenze e manifestazioni, parlando del mio percorso nello sport e nella vita quotidiana. Perché, appunto, io la disabilità la vivo tutti i giorni e ne comprendo appieno il senso. E allora cerco di creare cultura, una cultura che vuole aprire al dialogo e all’inclusione. L’importanza di questa giornata sta nel sensibilizzare maggiormente le persone che non hanno una disabilità, per far capire quante siano le sfide che ci troviamo ad affrontare di giorno in giorno.

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