Il 10 ottobre è la giornata Mondiale della salute mentale. Il pericolo è che passata quella data il tema torni nel silenzio, quando invece siamo nel mezzo di quella da molti descritta come una pandemia (mentale) globale, che attraversa tutte le generazioni e gli ambiti.
Guardando al mondo del lavoro, secondo Gallup, nel 2022 solo il 23% dei dipendenti si sentiva in qualche modo “connesso” ai manager, al team, o alla posizione occupata. Il 59% provava indifferenza e distacco rispetto al proprio impiego, non vedeva alcuna importanza negli obblighi e mansioni svolte e, di conseguenza, mostrava basso coinvolgimento. Un’ondata impressionante di quiet quitters o quiet resigners che dir si voglia – dipendenti che non per forza si licenziano, ma fanno giusto il minimo indispensabile. Secondo gli studi dell’istituto di ricerca, un atteggiamento questo che si traduce in un costo per l’economia globale corrispondente al 9% del PIL mondiale.
Manca una soluzione
La situazione è preoccupante e ancora non sembra essere in via di risoluzione. Anzi, lo stress percepito dai lavoratori ha raggiunto record massimi. Tra gli intervistati, il 44% indica di toccarne quotidianamente livelli alti – percentuale che è del 13% superiore a quella registrata nel 2009. Oltre alle contingenze sociali generali, questi numeri sembrerebbero correlati da una parte ai limiti imposti a inizio pandemia dall’obbligo immediato di smart working per tutti, e dall’altra all’atteggiamento del management che “non vede il lavoratori dietro i grafici delle prestazioni”.
Tra i cambiamenti radicali avvenuti, ha inciso poi pesantemente l’affermarsi di nuove aspettative rispetto ai tempi e i confini tra vita professionale e personale. Il lavoro da remoto unito all’uso estensivo della tecnologia a tutti i livelli, ha introdotto in molti la convinzione che siamo tutti sempre a disposizione – giorno, notte, in vacanza, via email o whatsapp.
A piccoli passi
Non ci sono al momento ricette in grado di rispondere e arginare in breve tempo tutte le sfumature legate all’abbassamento del livello di benessere mentale, specialmente dei lavoratori. Il quadro attuale è infatti causato da innumerevoli fattori, che vanno dall’insoddisfazione generale, dal cambiamento dei valori e delle priorità individuali, alla situazione storica con conflitti diffusi e crisi economiche continue.
Trasportato in ambito lavorativo questo si traduce facilmente in cinismo, nella sensazione di essere prigionieri della propria occupazione/azienda. Molti lavoratori allora facilmente finiscono per mettere il pilota automatico fino al punto di non spendere eccessiva energia nemmeno nel cercare una nuova posizione, con magari una migliore retribuzione, o che risponda meglio ad altre necessità personali. Semplificando, si rifiuta quasi di perseguire un migliore benessere personale.
Bassi livelli di benessere mentale sul posto di lavoro sono accentuati da sensazioni di solitudine, depressione, mancanza di speranza e prospettive per il futuro. Un quadro che sta facendo scattare molti allarmi nelle aziende. Sentimenti simili infatti impattano negativamente i lavoratori abbassandone i livelli di concentrazione nello svolgere i propri incarichi, acuiscono la mancanza di interesse generalizzata, favoriscono confusione e poca puntualità o precisione. Di contro, se le persone si sentono connesse, accolte e apprezzate nella loro professione, hanno livelli di stress più bassi, performano meglio e più efficacemente. Tendenzialmente, inoltre, sono meno propensi a lasciare la propria posizione. In quest’ottica, una parte del problema potrebbe, per esempio, essere affrontato da una migliore comprensione, da parte dei manager, delle nuove sfide del lavoro contemporaneo.
Crisi ramificata e profonda
Certo, il quadro generale della salute mentale nei luoghi di lavoro è la punta dell’iceberg di una crisi ramificata e profonda illustrata bene, a livello globale, dall’alta richiesta di supporto psicologico, dal consumo di farmaci antidepressivi, dal ripetersi di episodi estremi e dai livelli di ansia registrati anche tra i giovanissimi. Per questo non sorprende l’aumento delle iniziative da parte di alcuni governi per arginare il problema. E l’aumento del numero delle aziende che si dimostrano attente al tema, al punto da avviare programmi di sensibilizzazione interna, per esempio, o interventi diretti alla creazione di ambienti più accoglienti per i dipendenti.
Un cambiamento che dimostra la convinzione condivisa di come sia impensabile oggi separare lo stato mentale di una persona, l’ambito sociale e la sua attività professionale. Vita privata e necessità lavorative sono, come forse mai prima, sempre più connesse e, anche per questo, i modelli di un tempo non possono più funzionare immutati.
Monitoraggio e supporto attivo
Tra gli esempi e le buone pratiche, si diffonde nelle aziende la figura dello psicologo aziendale. Aumentano le iniziative che, nel riportare parzialmente i dipendenti sul luogo di lavoro, invitano a “circolare per le strutture” aziendali così da ri-connettersi ai propri collegi – in un mondo radicalmente diverso dal passato per quanto riguarda la struttura familiare e il network di amicizie, per alcuni i colleghi e i contatti di lavoro rappresentano le uniche o le più consistenti reti umane.
Certe realtà usano programmi di monitoraggio individuale dei livelli di benessere che sulla base della specifica situazione offrono consigli di intervento direttamente al dipendente. Succede per esempio nell’azienda Pami, con il programma “I Feel”. Chiaramente cosciente del ruolo svolto dai manager nell’influenzare un ambiente più o meno sano per tutti, poi, la statunitense Akamai Technology ha assunto un Corporate Wellness Program Manager che implementa, sviluppa e gestisce le risorse adatte all’interno dell’azienda per migliorare lo stato di benessere mentale dei dipendenti.
Pinterest, oltre ai suoi precedenti sforzi in materia, nel 2020 ha creato “Pinside Out”, una iniziativa che oltre a offrire iniziative focalizzate al benessere, offre lo spazio ai dipendenti per discutere di salute mentale anche con il contributo di esperti esterni. Il gigante Unilever, oltre alle attività specificamente indirizzate ai dipendenti, ha avviato iniziative di training per i manager e lavora nel creare una cultura aziendale in cui si possa cercare aiuto quando se ne sente il bisogno senza sentirsi stigmatizzati. Uno sforzo organizzativo che si accompagna anche a strumenti da usare per cercare supporto immediato, se necessario.
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