Sport, 4 minori su 10 hanno subito abusi o violenze

Il primo giorno io sbagliai e loro spingevano e urlavano.  Eravamo piccoli, non spiegavano nulla, lo schiaffo era la routine”. “A me piaceva ma non ero brava, allora mi dicevano: cosa ci fai qui? Noi puntiamo in alto. Così a 9 anni ho smesso, andavo sempre con l’angoscia, non ce la facevo più”. “Lei aveva un modello, dovevi avere un certo fisico, se non riuscivi  ti diceva: guarda che belle gambe hanno le altre”.

Sono alcune delle testimonianze raccolte nell’indagine sulla violenza nello sport commissionata a Nielsen da ChangeTheGame. Uno studio quali–quantitativo, il primo in Italia, realizzato tra febbraio e marzo 2023 su un campione di circa 1.400 ragazzi e ragazze  tra i 18 e i 30 anni, che prima della maggiore età hanno praticato attività sportive a livello amatoriale o agonistico ai livelli più bassi.

Lo studio, realizzato tramite interviste individuali con l’assistenza di uno psicologo, evidenzia alcune criticità fondamentali: il 39% degli intervistati – quattro persone su 10 – ha subito una forma di violenza durante l’attività sportiva quando era minorenne; la maggioranza non ha chiesto o ricevuto aiuto; gli autori delle violenze sono per lo più compagni di squadra per gli uomini, per le donne gli allenatori, tra i quali manca una adeguata formazione.

La prima ricerca realizzata in Italia

Il progetto, maturato in circa due anni, nasce dalla necessità di avere anche in Italia dei dati su abusi e violenze nello sport, tema delicato e doloroso, come testimonia lo scandalo che ha travolto lo scorso anno la ginnastica italiana”, ci spiega Daniela Simonetti, fondatrice di ChangeTheGame, organizzazione di volontariato impegnata a proteggere atlete e atleti da violenze e abusi sessuali, emotivi e fisici.

La ricerca Athlete Culture & Climate Survey, basata su studi internazionali, è partita con la collaborazione tra Change the Game e Dipartimento sport della presidenza del consiglio dei ministri, oltre a Cismai, Terres des Hommes, fondazione Candido Cannavò. Il comitato scientifico è poi guidato dal professor Mike Hartill (Department of Social Sciences for Child Protection & Safeguarding Edge Hill University, Lancashire).  La stessa associazione ChangeTheGame sta raccogliendo le denunce sui presunti abusi nel mondo della ritmica: da settembre a oggi sono 220 le segnalazioni di bambine e ragazze di età compresa tra 8 e 22 anni, denunce firmate che continuano ad arrivare da ogni regione.

Quali violenze?

Per definire la violenza, la ricerca di ChangeTheGame e Nielsen si basa sulla definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, che descrive la natura degli atti violenti come: fisici; sessuali (con contatto fisico e senza contatto fisico); psicologici; privazione o abbandono (negligenza). “La violenza verbale viene assorbita nella violenza emotiva quando la disciplina deraglia nell’abuso, con forme di umiliazione pubblica, esclusione, atteggiamento verbale aggressivo, svilente, offensivo e volgare”, sottolinea Simonetti.

A dichiarare di essere stato vittima di atti di violenza è il 40% degli uomini e il 37% delle donne. Le forme più diffuse sono la violenza psicologica (30,4%) e fisica (18,6%), seguite da violenza legata ad atti di negligenza (14,5%) e sessuale (13,7%).  Più nel dettaglio, il 22% è stato umiliato o fatto sentire inadeguato, il 20% è stato sgridato, insultato minacciato o aggredito verbalmente, il 19% è stato ignorato, non sufficientemente valorizzato e/o lodato. Il 55% di chi dichiara di aver subito violenza psicologica riconduce questi eventi a prima dei 15 anni. La violenza sessuale, con o senza contatto, viene invece  ricondotta principalmente a un’età compresa tra i 15 e i 17 anni (rispettivamente 57% e 54%).

Il ruolo dei compagni e dei coach

I responsabili delle violenze sono nella maggior parte dei casi i compagni di squadra (conosciuti per il 33,1% e non conosciuti per il 22,7%) e gli allenatori o allenatrici (31,1%, percentuale che per le donne sale al 35% e per gli uomini scende al 27%). In aggiunta, si fa riferimento anche ad altri operatori sportivi (15%).

Gli ambienti in cui sono avvenuti gli eventi negativi sono quasi sempre piccole e medie polisportive. Altro elemento rilevante è che la concentrazione degli abusi sale esponenzialmente con il livello di agonismo, anche se nel campione, che comprende tutte le attività sportive (atletica , basket, calcio, ciclismo equitazione, ginnastica ritmica e artistica, nuoto, pallavolo, rugby, tennis e così via), non sono presenti atleti nazionali o internazionali.

Le reazioni: silenzio e abbandono

Tra le vittime il sentimento prevalente è quello della vergogna e molte temono di non essere credute. Così il 56% di chi dichiara di essere stato vittima di atti di violenza non ha chiesto né ricevuto aiuto, percentuale che per le ragazze sale al 62%. La principale ragione: la convinzione delle vittime che quanto stava capitando loro potesse essere accettabile e tollerabile (47%, il 52% tra le donne) o la paura di essere considerate deboli (30%). La quota di chi non ha chiesto aiuto è 1,3 volte maggiore in chi riferisce violenza psicologica.

Tra le vittime di violenza sessuale, la quota chi non ha chiesto aiuto perché minacciato è 1,6 volte maggiore rispetto alla media. Il 12% riferisce di aver chiesto aiuto ma di non averlo ricevuto.  Nell’80% dei casi, chi ha subito atti di violenza racconta di aver avuto conseguenze nella propria vita: il  37% ha abbandonato il mondo dello sport, il 32% ha cambiato attività sportiva, il 13% ha avuto problemi di salute temporanei, l’8,5% problemi di salute cronici.

Le testimonianze raccolte

Ammetto di essere stato un bambino gracilino, non bravo in quello sport (M, 25-30, calcio). Partiva da una mia vergogna, per quei kg in più io già era una che si nascondeva (F, 25-30, pallavolo). Mi dicevano «eh te arrivi bene perché sei carina» (F, 25-30, ginnastica ritmica). Lì c’era un allenatore che chiedeva moltissimo, un ex di serie A, urlava, bestemmiava e più eri in difficoltà più infieriva. Loro non volevano la classica ragazza. Meglio quella carina esteticamente (F, 1824, ginnastica artistica)”.

Così raccontano alcuni degli intervistati: la vittima – si legge nella ricerca – vive un senso di colpa che nasce dall’attribuirsi ingiustamente le caratteristiche che secondo la sua percezione l’hanno messa nella posizione di subire una violenza. Quindi si percepiscono come bambini diversi e gli attributi personali e fisici vengono vissuti come difetti o colpe: troppo esili o in carne, troppo piccoli rispetto ai compagni, timidi, poco portati per lo sport, con un orientamento sessuale non accettato, carine e intraprendenti.

Poi ci sono le critiche legate a stereotipi e gli adulti che sminuiscono e diventano complici. “Non riesci a correre perché sei una femminuccia» (M, 18-24, pallacanestro).  I ragazzini più grandi mi facevano sempre uscire il sangue dal naso o mi lasciavano i lividi dietro al collo, sulla schiena. L’allenatore lo sapeva ma diceva che erano tutti bravi ragazzi (M, 25-30, calcio)”.

La formazione che manca

Lo studio evidenzia come fattori scatenanti alla base degli eventi negativi: una selezione troppo precoce degli allievi e allieve; un’eccesiva competizione; l’inadeguatezza dell’allenatore e dell’allenatrice. Il mondo dello sport, per questo, dovrebbe farsi carico di formare adeguatamente gli allenatori, le allenatrici e gli operatori sportivi, anche dal punto di vista psicologico e pedagogico, oltre a controllare, anche con visite a campione e in incognito, come vengono svolti gli allenamenti e sanzionare l’uso di metodi non consoni.

Al primo posto nelle attività sportive ci devono essere gioia, divertimento e corretta disciplina. Dal nostro progetto emerge l’inadeguatezza della formazione a tutti i professionisti dello sport, dai tecnici ai coach. Individuare come autori delle violenze anche i compagni di squadra implica, inoltre, la connivenza degli adulti che non guardano e si girano dall’altra parte. Per le donne, invece, gli abusi arrivano per lo più dagli allenatori, confermando il rapporto di potere tra coach e ragazze. Ma dobbiamo riflettere anche sulla formazione delle famiglie: tutti devono imparare a riconoscere i maltrattamenti e denunciarli”, conclude Simonetti.

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