Irma Testa: “Il pugilato è eleganza, chi meglio di una donna può incarnarlo?”

Sul tetto del mondo a 25 anni, protagonista predestinata di uno sport considerato “maschio”. Irma Testa, campionessa Olimpica di pugilato a Tokyo 2020 (prima medaglia di un’atleta italiana ai Giochi), si è confermata di recente – grazie alla vittoria del Mondiale contro la kazaka Karina Ibragimova – tra le migliori espressioni sportive della nobile arte femminile. Un risultato, quello di New Delhi, che le ha regalato il titolo di Campionessa Iridata della categoria 57 kg.

L’azzurra (Fiamme Oro), nata e cresciuta sul golfo di Napoli e che al pugilato ha dato tutta se stessa, è riuscita a rafforzare il suo essere simbolo di un movimento sportivo in continua evoluzione, sia dal punto di vista sportivo sia culturale.

Partiamo dalla vittoria al Mondiale: come ci si sente ad aver conquistato il primo titolo iridato in carriera?
E’ una sensazione mai provata prima. Di medaglie e titoli ne avevo già vinti, ma quello che ho percepito sapendo di essere arrivata sul tetto del mondo, è un qualcosa che non avrei mai potuto immaginare. Le emozioni mi hanno completamente travolta e lasciata incredula. Anche perché i sogni sono fatti per rimanere lì in un angolo, e quando si realizzano è un qualcosa di inspiegabile.

Ricordi quando e come ti sei avvicinata per la prima volta al pugilato?
Avevo 12 anni ed era mia sorella a praticare pugilato. La osservavo mentre andava in palestra, e quando tornava a casa con un occhio nero dopo lo sparring, io mi preoccupavo mentre lei era felicissima. Le dicevo che era una pazza e che non si poteva essere felici per avere un occhio nero. Lei mi rispondeva sempre che non avrei mai capito quello che provava. Al che decisi di voler provare anche io. E finalmente capii quella sua felicità. Quindi se oggi pratico questo sport è anche grazie a mia sorella.

Il tuo soprannome è “Butterfly”. Chi te lo ha dato?
Il mio primo allenatore. Nel pugilato le “farfalle” sono quegli atleti che si muovono molto per non prendere pugni. Quando sono entrata in palestra per la prima volta, l’idea di prendere i colpi non mi piaceva molto, ma sul ring devi anche incassare. E questo mi dava fastidio. Così cercavo in tutti i modi di scappare perché non volevo essere il bersaglio, e il mio maestro mi urlava: “Smettila di fare la farfalla impazzita per fuggire dai colpi! Non sei una farfalla impazzita, sei solo una farfalla!”

A proposito di farfalla, c’è una citazione famosa di Muhammad Alì che dice: “Vola come una farfalla e pungi come un’ape”. Sul ring e nella vita, quanto sei farfalla e quanto sei ape?
Nella vita privata sono una persona pacifica, calma e tranquilla. Ho un equilibrio interiore e mentale che difficilmente viene scalfito. Sono poche le cose che mi toccano. Quindi direi che mi sento farfalla anche nella vita. Quando invece devo preparare un incontro o un appuntamento importante (Olimpiadi per esempio) divento un po’ egoista e penso a me e alle mie cose. Rimanendo lontana da tutto quello che non serve.

“Butterfly” è anche il titolo di un docufilm del 2018 uscito su RaiPlay che racconta un percorso umano e sportivo da Torre Annunziata fino alle Olimpiadi di Rio, la tua prima partecipazione ai Giochi. Com’è stata quell’esperienza?
Direi molto particolare, quasi intima, perché stare davanti a una telecamera per quattro anni mi ha spinto a scoprire lati di me stesse e dinamiche familiari che non avevo preso in considerazione o che non volevo vedere. Il fatto di espormi quotidianamente davanti a un obiettivo, ha tirato fuori tutto questo.

I registi, poi, sono stati bravissimi. Perché creavano dinamiche tali da far uscire allo scoperto alcuni temi che mi lasciavo sempre indietro. L’esperienza del docufilm mi ha arricchita, specie umanamente. La troupe è diventata parte della famiglia a tal punto da rimanere in stretto contatto anche dopo la fine del profetto. Mi piace l’idea di aver fatto qualcosa per gli altri, perché vuoi o non vuoi io una medaglia l’ho portata a casa. Ma è bello che agli altri sia rimasto qualcosa di me.

Sei la prima pugile italiana ad aver partecipato ad una Olimpiade (Rio 2016) e la prima a vincere una medaglia (Tokyo 2020) nella storia del pugilato femminile tricolore. Sono emozioni diverse o c’è un fil rouge che unisce queste due esperienze emotive?
Sono emozioni simili che si accomunano, pur essendo frutto di due risultati diversi. Qualificarsi all’Olimpiade per la prima volta è stato, da un lato, importante per tutto il movimento, dall’altro la dimostrazione che le donne avessero meritatamente raggiunto il loro posto nel pugilato. A Rio ho pensato “anche noi ci siamo”. A Tokyo è andata diversamente. Lì ho dimenticato il risultato storico e mi sono concentrata sulla medaglia. Che poi era una medaglia anche per il movimento.

Secondo te quanto bisogna lavorare sulla cultura sportiva per ridurre quei gap mentali che considerano la donna non all’altezza di uno sport come il pugilato?
Credo che ora l’abbiamo capito un po’ tutti, ma resta il fatto che continuare a lavorare per cambiare mentalità non basta mai. Da diversi anni a questa parte, i risultati vengono più dalle donne. In questo momento siamo noi il pugilato. Gli scettici non possono essere cambiati e lo sport, oggi, non solo è sempre più donna ma è anche il primo settore dove si stanno abbattendo quasi tutti i tabù.

Un anno fa il tuo coming out pubblico. Quanto ti ha aiutato aver vinto la medaglia olimpica per affrontare questo ulteriore step personale? O è stata una scelta che avresti fatto in ogni caso?
In realtà la medaglia mi ha aiutato tanto, senza non lo avrei mai fatto. Salire sul podio di una Olimpiade vuol dire essere un’atleta affermata e nessuno può azzardarsi a dire una parola. A me non interessa se mi giudicano oppure no, nello sport queste situazioni ci sono ma non vengono toccate. Quello che voglio dire è che essere sportivi non vuol dire essere supereroi. Siamo persone normali. E come tali abbiamo anche noi il nostro percorso interiore da affrontare.

Come sta cambiando il movimento pugilistico femminile italiano e quali sono i passi ancora da fare perchè diventi “normale” parlare di pugilato anche come uno sport al femminile?
Sta evolvendo tantissimo perché sempre più donne si uniscono insieme per far sentire la propria voce, per avere un contratto dignitoso per esempio. Ma anche se in linea generale c’è ancora tanto lavoro da fare, possiamo sempre volgere il nostro guardo verso tanti esempi di donne attiviste che combattono per i nostri diritti. Per esempio, trovo che parlare di quote rosa sia discriminante. Ecco perché sono convinta che solo attuando meritocrazia e uguaglianza in ogni settore, si possano fare concreti passi avanti.

Libro preferito sulla boxe?
True – La mia storia (Mike Tyson)

Qual è il tuo rapporto coi social media e come possono essere utilizzati da uno sportivo di alto livello per veicolare messaggi positivi?
I social media possono aiutare a comunicare tutto ciò che di bello c’è dietro lo sport professionistico e che in pochi conoscono. La routine giornaliera, quanto può far bene avere uno stile di vita sano, oppure far passare il messaggio che il sacrificio nello sport non è una condanna ma una forma mentis che ti aiuta nella vita. E poi credo siano mezzi attraverso i quali lavorare anche sulla propria credibilità, ricordandosi sempre però, che la vita reale è lontano da una tastiera e con gli occhi rivolti verso un’altra persona, non su un monitor o su uno smartphone.

Cosa diresti a una bambina che ti confidasse di voler praticare pugilato?
Le direi innanzitutto che se nel pugilato trova una sport che le piace e la diverte, comincia già col piede giusto per realizzare quello che desidera. Poi le direi che la sola cosa che conta è stare bene con se stessa per riuscire a stare bene con gli altri. E poi la boxe è elegante e può essere praticata anche senza combattere, solo per tenersi in forma. E parlando di eleganza, chi può incarnarla meglio di una donna?

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