Che cosa ci spinge a sentirci insoddisfatti davanti allo specchio, e poi a provare qualcosa di simile davanti al risultato del nostro lavoro, all’esecuzione di una ricetta o alla conclusione di una giornata? La delusione di sé è un sentimento assai duro, che lavora ai fianchi delle nostre giornate, puntellandole di piccoli confronti debilitanti. Che cosa non vediamo, che invece vorremmo vedere? L’idea che manchiamo quando ci sentiamo inadeguati, è un’immagine di noi reale oppure ideale?
La sensazione dovrebbe essere infatti molto diversa nei due casi. Se io so di poter essere in un certo modo e so di poter fare le cose con una certa qualità, ogni volta che mi guardo e mi sperimento, misuro la distanza tra quel che ho già visto in passato e ciò che faccio e sono in un determinato momento. Confronto, insomma, il sé presente con il sé passato, in una competizione tra me e me in cui chi vince e chi perde sono comunque io. Sto gareggiando su una linea del tempo in cui è normale che in alcuni momenti le condizioni mi consentano una performance migliore che in altri. La frustrazione del momento può quindi essere superata con un approccio alla “Via col vento” che ci consenta di dire “domani è un altro giorno”: dando al futuro la possibilità di riscattare la delusione del presente.
E già questo non è facile, perché il futuro è spesso più aspirazionale che reale, e così l’asticella si alza mentre la percezione di sé subisce colpi al ribasso, creando distanze che a un certo punto possono sembrare incolmabili. Se qualcosa ci sembra impossibile, non ci muoverà: non cercheremo di farla succedere. Così funziona la profezia che si auto-verifica: se manco il risultato una volta di troppo, penserò che sia inevitabile e lo mancherò ancora e ancora. Di fronte a un passo che sembra troppo grande, non sarò in grado di metterne in moto nemmeno di piccoli.
Il bello del concetto “Domani è un altro giorno” sta invece nel senso di reset che dà: ogni giorno riparto da zero, senza la frustrazione accumulata, dandomi di nuovo tutte le possibilità di essere. Questo, se il confronto è tra diversi me reali: tra la foto più bella che ho di me e la mia immagine allo specchio.
Il guaio vero succede quando il confronto è con un sé ideale, idealmente perfetto. Il perfezionismo è questo: aspirare a un risultato che non tiene conto della realtà. La parola “perfetto” deriva dal latino “perficere”, che vuol dire compiere: una cosa perfetta è una cosa compiuta. Fatta, senza mancanze. Il termine di paragone, quando non è reale, è un misto astratto di cultura, emozioni, famiglia, comunità. Si compone insomma di un pout pourri di messaggi che ci raggiungono sin dall’infanzia – su canali sempre più numerosi – a comporre un senso di perfezionismo mostruoso .
La distanza tra questo ideale – che è più forte perché non detto – e la realtà, diventa inevitabilmente incolmabile. Un po’ lo sappiamo, e allora il grado di frustrazione viene contenuto da un voce saggia che ci ricorda che “nessuno è perfetto”. Ma quella voce interiore, che rappresenta la nostra capacità di volerci bene, viene molto spesso zittita dal rumore che proviene da tutte le altre voci, intorno a noi e dentro di noi. E quelle voci ci dicono che noi dovremmo essere e fare molto meglio di così. Eppure lo sappiamo bene, che è sempre più raro che sia possibile finire le cose: renderle perfette. E sappiamo che le foto hanno i filtri, mentre la realtà ha la forza di gravità.
Sappiamo tutto, ma non riusciamo a evitare che il perfezionismo ci renda infelici. E trasferiamo questa condanna ai nostri familiari, colleghi e amici: amandoli nello stesso modo perfezionista in cui amiamo noi stessi. Un amore “a certe condizioni”: che dipende dalla distanza tra quel che vorremmo vedere e quel che sappiamo vedere – in nessuno dei due casi si tratta, poi, di ciò che c’è.
Ma se invece lo sguardo, allo specchio e altrove, fosse quello di un amore imperfezionista? L’imperfezionismo, nel vocabolario non esiste ancora, ma qualcuno ne parla già, e sembra un concetto necessario. È l’accettazione – che potrebbe iniziare come tolleranza e poi trasformarsi in affezione – verso il senso incompiuto delle cose, a iniziare dal nostro. Siamo imperfetti: non siamo “finiti”; e facciamo cose imperfette, che raramente arriviamo a finire. Abbiamo relazioni imperfette, sempre in discussione, sempre in cambiamento, sempre incomplete. Il bello dell’incompletezza è la possibilità di aggiungere sempre qualcosa; il bello dell’imperfezione è la possibilità di togliere sempre qualcosa.
La frustrazione potrebbe allora facilmente emergere da ciò che invece, essendo perfetto, è immutabile, condannato a restare così. Sempre perfetto e uguale a sé stesso, incurante del mondo che cambia, impermeabile alla nostra stessa vastità.
“Sono vasto, contengo moltitudini” diceva Walt Whitman, e questa frase era preceduta da quello che potrebbe diventare il mantra dell’imperfezionismo, ovvero: “Mi contraddico? Ebbene sì, mi contraddico”.
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