Femminicidi, cosa ancora non funziona. Le sfide per il nuovo governo

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Ilaria Sollazzo, 31 anni, mamma di una bimba di due anni e uccisa dall’ex marito Antonio Russo, che poi si è suicidato. Lilia Patranel, 41enne ammazzata dal compagno Alexanandru Dimitrova nella loro casa, nella camera accanto il figlio di 4 anni. E poi Giuseppina Fumarola, 48 anni, che ha lasciato due figli ventenni e Alessandra Matteuzzi, 56 anni, uccisa dal suo ex, denunciato per stalking. Sono i nomi di alcune delle vittime di femminicidio del 2022, sempre una ogni tre giorni: i numeri parlano chiaro e le statistiche sono sempre le stesse. Secondo i dati del Viminale, da gennaio sono 82 gli omicidi di donne in Italia, 72 in ambito familiare e affettivo. L’anno scorso nei primi 10 mesi ci sono stati 90 omicidi di donne, 77 in ambito familiare. E ogni volta ci si interroga: cosa non ha funzionato? A che punto siamo nel contrasto alla violenza di genere? Domande fondamentali a cui non è possibile sottrarsi, anche in vista delle sfide che il futuro nuovo governo dovrà affrontare.

Il primo punto è la prevenzione. “E’ fondamentale comprendere la natura della violenza maschile alle donne. Non si tratta di un problema di sicurezza, bensì di un fenomeno culturale. Per questo, per iniziare a contrastarlo concretamente, dovranno essere resi obbligatori corsi di formazione, preparati in collaborazione con i centri antiviolenza, destinati a tutti gli operatori e a tutte le operatrici che a vario titolo entrano in contatto con le donne che subiscono violenza. Partiamo dalla prevenzione, smettiamo di contare le morti“, spiega ad Alley Oop – Il Sole 24 Ore Antonella Veltri, presidente dell’associazione D.i.Re, Donne in rete contro la violenza.

D’accordo Simona Lanzoni, vice presidente Fondazione Pangea Onlus. “Se da più di 40 anni il numero dei femminicidi non diminuisce, vuol dire che le politiche sino ad ora pianificate non funzionano a sufficienza, soprattutto non si è mai investito seriamente nella prevenzione e nella formazione. Gli stessi Piani d’Azione Nazionale, in tutti questi anni, non hanno mai trovato nei finanziamenti lo sbocco per tradurre i presupposti scritti in azioni concrete. Così fallisce l’azione della politica reale di prevenzione e contrasto alla violenza. Lo abbiamo visto con il Codice Rosso, necessario ma non sufficiente: se resta sulla carta e non viene applicato mostra tutti i suoi limiti e diventa inefficace”, afferma Lanzoni. Quindi l’appello al nuovo esecutivo: “Ci aspettiamo che questo nuovo governo, come qualsiasi altro governo, dia risposte concrete per affrontare in modo sistematico il tema della violenza maschile, affinché non ci sia più neanche un femminicidio e che lo faccia non solo con politiche legate alla sicurezza ma anche attraverso azioni di prevenzione, finanziando tutto quel che è relativo alla protezione delle donne che subiscono violenza, in linea con le disposizioni della Convenzione di Istanbul. Il cambiamento culturale è la base da cui partire per garantire alle donne una vita libera dalla paura e la prevenzione è lo strumento per affrontare in modo sistemico il fenomeno della violenza maschile. Da questo approccio nessun Governo può ancora prescindere”, conclude la vice presidente Pangea.

Bloccato in Parlamento c’è il pacchetto di norme antiviolenza presentato a dicembre 2021 dalle ministre Marta Cartabia, Luciana Lamorgese, Elena Bonetti, Erika Stefani, Mara Carfagna e Mariastella Gelmini. Ad agosto, durante la campagna elettorale, la ministra per le Pari opportunità, Elena Bonetti, ha dichiarato che il suo impegno è che “il primo atto della nuova legislatura sia l’approvazione della legge antiviolenza”. Obiettivo del ddl: prevenire e contrastare la violenza contro le donne e mettere in campo una serie di misure per proteggere le vittime.

Ma questo non basta. In Italia nei casi di abusi e maltrattamenti manca una corretta valutazione del rischio perché la violenza spesso non viene riconosciuta dalle forze dell’ordine e nei tribunali. In tal senso la Cedu – la Corte europea dei diritti dell’uomo – ha condannato cinque volte l’Italia per violazione dell’articolo 3 della Convenzione dei diritti dell’Uomo che vieta i trattamenti inumani e degradanti, per non aver protetto le donne vittime di violenza e i loro figli. A queste 5 condanne si aggiunge l’ultima sentenza: il Governo italiano dovrà versare 30 mila euro ciascuno a due minori per non aver preso le misure necessarie per proteggerli dalla violenza del padre, violenza che ha portato la loro mamma alla morte. A sottoporre il caso a Strasburgo è stata la madre adottiva dei due bambini. La Cedu, in tutte le sentenze, ribadisce che in Italia è ormai necessaria e non più rinviabile una riforma organica e seria, che affronti la violenza contro le donne in chiave preventiva e di riconoscimento della violenza. Nel nostro Paese manca una efficace valutazione del rischio condivisa, non si attivano reti di protezione e permane una costante diffidenza nei confronti delle denunce delle donne.

Per fare un esempio, Silvia De Giorgi, padovana e madre di tre figli, si era rivolta alla Cedu accusando le autorità italiane di non aver fatto il necessario per proteggerla dalla violenza domestica, nonostante le ripetute denunce: 7 dal 2015 al 2019. Anche Lidija Miljkovic, prima di essere uccisa, aveva denunciato più volte l’ex marito, padre dei suoi figli. Così come Alessandra Matteuzzi e Gabriela Trandafir, uccisa insieme alla figlia Renata. Ma le misure preventive mancano o non bastano e le denunce vengono archiviate. Uno dei motivi principali è il non riconoscimento della violenza. Così le donne – e i loro figli diventano vittime due volte: del maltrattante e delle istituzioni. Da qui l’importanza della formazione, specializzazione e assenza di stereotipi. “Ci ho messo oltre 20 anni per accorgermi sia come giudice sia come persona del pregiudizio collettivo che travolge le donne che subiscono violenza maschile. Per anni non ho visto, adesso vedo o mi sembra di vedere, anche troppo: ho indossato le lenti di genere”, scrive la giudice Paola Di Nicola nel suo libro “La mia parola contro la sua”.

C’è un caso emblematico: il femminicidio di Elisa Bravi, strangolata il 19 dicembre 2019 dal marito nella loro casa nel ravennate, alla presenza delle due figlie di 3 e 5 anni. In primo grado, nel luglio del 2021, l’assassino Riccardo Pondi era stato condannato a 24 anni, considerando le attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti: l’aver ucciso la moglie, aver commesso il delitto davanti alle figlie minori e aver approfittato della minorata difesa della vittima. Pochi giorni fa, il 22 settembre, la Corte d’Assise di appello di Bologna ha riformato la sentenza condannandolo all’ergastolo, considerando le circostanze attenuanti subordinate alle aggravanti e tenendo conto in particolare modo della violenza assistita. Contro la sentenza di primo grado si erano appellate anche le avvocate delle associazioni parte civile al processo, ovvero Udi, Dalla parte dei Minori, Demetra donne in aiuto, Unione dei Comuni della Bassa Romagna e Comune di Bagnacavallo.

Anche il Grevio – l’organismo indipendente del Consiglio d’Europa sul contrasto alla violenza di genere – ha più volte sottolineato le mancanze dell’Italia e di altri Paesi nel contrasto alla violenza contro le donne. Grevio parla in generale di formazione e specializzazione insufficienti sulla violenza contro le donne, soprattutto delle forze dell’ordine e la necessità di protocolli specializzati. Il ritardo nella risposta alle denunce delle vittime è evidente – spiegano gli esperti – ed è attribuito alla mancanza di formazione, a stereotipi radicati e ad atteggiamenti patriarcali.

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