Violenza sulle donne: cosa funziona e cosa no nel sistema giustizia

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Gli ultimi episodi di cronaca sono desolanti e lasciano amarezza: Daniele Bedini, indagato per duplice femminicidio, e Zlatan Vasilijevic, autore del duplice femminicidio di Vicenza, avrebbero probabilmente potuto e dovuto essere nelle condizioni di non nuocere. Il secondo, in particolare, aveva subito anche il carcere per gli episodi di violenza, ma era stato poi scarcerato e finito ai domiciliari, pur se con un divieto di avvicinamento.

Che cosa non ha funzionato? Perché il sistema non è riuscito a proteggere le vittime di violenza, mettendo in scena un classico esempio di vittimizzazione secondaria? La donna, cioè, già vittima di violenza, invece di essere protetta, ha subito un’escalation di violenza la cui conclusione è il femminicidio.

Di questo, di vittimizzazione secondaria e in particolare della formazione di una cultura della prevenzione e dell’attenzione ai fattori di rischio si è discusso nel recente corso formativo a Napoli nell’ambito del progetto Never Again, vincitore di un bando europeo, a cui Alley-Oop Il Sole 24 Ore partecipa con Università Vanvitelli di Napoli, capofila, la società di europrogettazione Prodos, l’associazione teatrale M.a.sc., Maschile Plurale e D.iRe-Donne in rete contro la violenza. Il dibattito, preceduto dalla rappresentazione scenica della vittimizzazione secondaria ad opera di M.a.s.c., è stato seguito da un’aula gremita di magistrati, rappresentanti delle forze dell’ordine, avvocati. Dopo “Secondo atto” (scritto e diretto da Giulia Corradi con Silvia Vallerani, Martin Zuccarello e David Mastinu), che ha messo sotto gli occhi di tutti la vittimizzazione secondaria, coinvolgendo emotivamente il pubblico, durante la tavola rotonda si sono approfonditi gli aspetti più rilevanti e critici dell’impianto normativo attuale e delle sue applicazioni pratiche.

Brancati (Questura di Napoli): “L’ingiunzione trattamentale sta funzionando”

Innanzitutto, la prevenzione. Occorre agire già nella fase precedente l’iter giudiziario, prima ancora della denuncia della vittima di violenza. Secondo Nunzia Brancati, dirigente della divisione Anticrimine della Questura di Napoli, ha avuto un buon esito lo strumento dell’ingiunzione trattamentale che si affianca all’ammonimento e prevede per il maltrattante un percorso finalizzato al miglioramento della gestione delle emozioni e del controllo degli impulsi. “Nella nostra esperienza – spiega Brancati – questo strumento sta funzionando: nel contesto napoletano il 90% degli ammoniti, si reca al primo incontro, il 70% persegue il percorso non recidivando. Noi abbiamo ovviamente un periodo di osservazione lungo che supera l’anno, dobbiamo vedere come andrà in seguito”. Peraltro, nota Brancati, “bisogna evidenziare che l’ammonimento ha proprio la funzione di intervenire sulle prime manifestazioni di rischio, ovvero sulle percosse, minacce, sui reati procedibili a querela, non su quelli come il maltrattamento in famiglia acclarato procedibile d’ufficio. Normalmente quando ci sono reati spia come percosse e minacce, cioè, anche a prescindere dalla querela possiamo intervenire con l’ammonimento che punta a interrompere il circuito della violenza e a prendersi cura del maltrattante. Sono tutti trattamenti gratuiti e sono una forma di prevenzione della recidiva, a tutela della vittima”.

Recchione (Cassazione): “Le misure cautelari siano adeguate e non blande”

In materia di decodifica del rischio, sono tre i punti su cui si focalizza Sandra Recchione, consigliera della Corte di Cassazione. “Il primo punto riguarda tutti gli operatori durante le fasi iniziali delle indagini, con la correlata applicazione di misure cautelari che siano adeguate, non blande. Se c’è un rischio elevato, per esemplificare, la risposta dev’essere la custodia cautelare in carcere, e non, ad esempio, il divieto di avvicinamento. Occorre ricordare che, in questi casi, il bene protetto  è quello della vita delle persone e le misure vanno adeguate. Secondo punto: per evitare la vittimizzazione secondaria occorre stabilire  per legge la videoregistrazione di tutta la raccolta delle dichiarazioni anche in fase di indagini; tutto ciò inibisce la reiterazione infinita della raccolta delle dichiarazioni. In terzo luogo, occorre prevedere una forma di impugnazione dell’ordinanza relativa alla richiesta di incidente probatorio, ordinanza con cui si ammette o rigetta l’incidente. Spesso, infatti, ci sono rigetti immotivati e il rigetto mette la vittima in una situazione difficile poiché sarà ascoltata almeno due -tre volte, mentre l’espediente procedurale dell’incidente probatorio limita e accorpa le indagini”.

Codice Rosso: Falcone, “ha apportato maggiore tempestività”

Tra le novità legislative più attese e discusse c’è il cosiddetto ‘Codice rosso’ del 2019 che punta ad assicurare una risposta tempestiva della giustizia e una corsia preferenziale a questo tipo di reato. Secondo Raffaello Falcone, procuratore aggiunto alla Procura della Repubblica di Napoli, “le modifiche apportate in questi anni alla legislazione che hanno avuto massima visibilità con le normative del cosiddetto Codice rosso, hanno consentito maggiore tempestività”. Falcone, nella pratica, ha sperimentato positivamente anche il discusso obbligo di risentire la vittima entro tre giorni dalla notizia di reato, aspetto che non è andato esente da critiche.  “Ascoltare la vittima entro tre giorni sembrerebbe un dato contraddittorio;  in realtà si è voluto creare un rapporto diretto, avere un’autorità ben individuata, un pm che ascolterà la vittima e sarà in grado, vista la specializzazione conseguita, di mettere in campo in tempo strumenti volti a fare ottenere una tutela prima possibile, non sacrificando il dato probatorio”.

Sull’applicazione dell’obbligo di ascoltare la vittima entro tre giorni dall’acquisizione della notizia di reato fa dei distinguo Sandra Recchione. “Nella misura in cui questa misura sia standardizzata potrebbe non essere una scelta adeguata. Facciamo un esempio: se la violenza emerge dalle intercettazioni per processo per droga,  la vittima in questo caso non ha denunciato e magari, se entro tre giorni dall’ acquisizione della notizia di reato viene ascoltata, con tutta probabilità negherà”. Secondo Recchione, quindi, “dev’essere il procuratore ad adattare le indagini al caso. Va comunque detto che questa norma è senza sanzione, e quindi non ha effetti sul procedimento se non viene applicata. Certo è una norma bandiera che serve a segnalare l’importanza di questi procedimenti, ma l’utilità effettiva dipende dai casi. L’audizione dev’essere comunque tempestiva, e non si possono certo far passare 10 mesi come nel caso Talpis (per cui l’Italia  è stata condannata da Strasburgo, ndr), ma non bisogna neanche inficiare le indagini. Ci sono casi dove è giusto sentire subito la vittima, altri in cui è sbagliato. Tutto quello che è standardizzato dal mio punto di vista non è corretto. Non bisogna mai essere rigidi quando si affronta un processo per violenza nelle relazioni strette”.

Avvocata Cavalli: “Discrasie tra giudizio penale e giudizio civile, monitorare procedimenti post Codice rosso

  Il Codice Rosso punta, inoltre, a un maggior raccordo tra procedimento penale e procedimento civile nel caso in cui a una denuncia di violenza segue o è concomitante anche una causa al tribunale civile per l’affido dei figli. Dina Cavalli, vicepresidente dell’Ordine degli avvocati di Napoli, si concentra sulle incongruenze del sistema rilevate dalla recente relazione della commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio relativamente proprio alla vittimizzazione secondaria. Emergono “discrasie tra giudizio penale e giudizio civile. Si rischia che donne legate da rapporti matrimoniali con l’uomo maltrattante o comunque duraturi nel tempo, con figli, abbiamo una certa ritrosia a denunciare, nonostante la paura e il timore per loro e per i loro figli.  Ci sono, infatti, casi limite, documentati dalla relazione, dove con giudizi di separazione e allegazione di violenza, i figli sono stati collocati nelle case-famiglia. Se una donna ha timore che l’allegazione della violenza possa diventare un boomerang  per lei e per i suoi figli diventa, ovviamente, restia a denunciare. Il rischio, cioè, è che venga sottovalutata l’allegazione di violenza, venga se non invocata la Pas (sindrome di alienazione parentale non riconosciuta dalla scienza e, oggi, anche dalla giurisprudenza della Cassasione, ndr) avviata una sorta di indagine sulle capacità genitoriali della donna. Con la conseguenza che l’ attenzione si sposta dalla condotta maltrattante a quelle che sono le sue capacità genitoriali”.

Va tuttavia sottolineato, dice Cavalli, che “i procedimenti oggetto di analisi della commissione parlamentare sono stati iscritti nel 2017, è stato cioè scelto un anno tale per cui si potevano analizzare procedimenti ancora pendenti e procedimenti già definiti: il Codice rosso è entrato in vigore nel 2019. Probabilmente bisognerà verificare, per comprenderne l’efficacia, i procedimenti post Codice rosso”. In ogni caso, aggiunge l’avvocata, “in materia di raccordo tra civile e penale, poteva essere prevista una forma di dialogo costante in maniera più ampia tra le autorità giudiziarie, e non solo, com’è avvenuto, per la trasmissione di determinati atti . Ciò non toglie che il giudice civile possa far richiesta di atti. La disposizione introdotta dal Codice rosso (all’articolo 64 bis del codice di procedura penale) è una disposizione che fa riferimento al giudice penale, prevedendo la trasmissione obbligatoria di alcuni atti”.

D.iRe: nell’esperienza dei centri antiviolenza numero bassissimo di allontanamenti dei maltrattanti

All’atto pratico la fotografia dell’applicazione della giustizia  dei centri antiviolenza non è confortante. “Se è vero – spiega Maria Ferrara, psicologa di D.i.Re-Donne in rete contro la violenza – che è aumentata la percezione del rischio, anche di letalità,  rispetto ai casi di violenza in famiglia e che il Codice Rosso impone la messa in protezione tempestiva delle vittime, i centri antiviolenza registrano un aumento di richieste di ospitalità di donne e minori nelle Case rifugio, assistiamo ad un numero bassissimo di allontanamenti dei maltrattanti dall’abitazione familiare e a una progressiva trasformazione della violenza, riconosciuta nella fase di svelamento, in conflitto. Le vittime, soprattutto i minori, vengono a trovarsi in una situazione paradossale: devono lasciare la propria casa, vengono inseriti in una comunità o in una casa rifugio, le donne a volte sono costrette a smettere di lavorare (non si sa per quanto tempo) e non hanno alcuna certezza di cosa spetta loro nel futuro prossimo. A tutto questo si aggiunge la pressione dei servizi e dei Tribunali per far riprendere il prima possibile le visite con il padre che ha agito violenza, senza che quest’ultimo abbia intrapreso alcun percorso di cambiamento oppure che abbia semplicemente accordato di rivolgersi a un Centro per uomini maltrattanti”.

Le norme ci sono, il problema è fare rete

Fondamentale, in tutta la disamina dei casi di vittimizzazione secondaria, diventa la formazione che è uno dei pilastri del progetto Never Again, di cui è coordinatrice scientifica Teresa Bene, professoressa di ordinaria di diritto processuale penale nell’Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitell. La formazione deve interessare tutto l’iter procedurale, dalla denuncia alla conclusione del processo. A Napoli, esemplifica Falcone, “anche la polizia giudiziaria è  formata e specializzata.  E la procura di Napoli ha emanato direttive sulla raccolta degli elementi di prova, sulla necessità di creare contatti con gli assistenti sociali competenti per territorio, qualora siano coinvolti minori”. Inoltre “abbiamo creato all’interno dei vari commissariati personale specializzato”.

 Avvocati, magistrati inquirenti e giudicanti, psicologi e assistenti sociali, inoltre, concordano su un punto: le norme, a livello generale, ci sono, il problema è applicarle e, quindi, fare rete tra tutti gli operatori coinvolti. Secondo Falcone, in particolare, “gli strumenti normativi ci sono, sono innovativi e rilevanti, poi i soggetti preposti ad applicarli devono essere altrettanto bravi a saperli utilizzare. Per questo motivo è necessario non solo creare rete con gli altri soggetti, ma essere bravi nella ricerca dei mezzi di prova”. Gli fa eco l’avvocata Cavalli: “solo una risposta coerente di tutte le istituzioni e sedi può arginare il fenomeno della violenza di genere e violenza domestica”.

Bene (Vanvitelli): “tutela preventiva, evitare distorsioni sistemiche e cognitive”

Nell’occasione del corso di formazione che si è tenuto a Napoli e organizzato dall’università Vanvitelli, che ha coinvolto anche la Scuola Superiore della Magistratura, partner di Never Again , si è potuta toccare con mano la necessità di fare rete; erano infatti presenti magistrati, avvocati, forze di polizia e assistenti sociali. “L’idea del corso – spiega Teresa Bene – è stata quella di concentrarsi sul meccanismo che si innesta dopo la violenza. Occorre agire su tre macroaree: la prima è la tutela preventiva, non solo puntando sull’ammonimento ma anche sull’ingiunzione trattamentale, che è uno strumento molto utile perché per la prima volta si spinge il soggetto maltrattante a compiere un percorso, cosa che le associazioni hanno sempre considerato impossibile. Una volta partita la denuncia, il processo che si apre è un’attività a rischio, ha potenzialità di amplificare il fenomeno della vittimizzazione: solo attraverso la formazione e la specializzazione di tutti quelli che intervengono, magistratura requirente e poi giudicante, è possibile arginare, tenere sotto controllo: restano tuttavia delle distorsioni sistemiche, comprese quelle normative. Il terzo punto è rappresentato dalle distorsioni cognitive, ovvero il linguaggio giuridico che viene usato,  visto che in alcune sentenze si scrive ancora ‘preso da un raptus’ o simili locuzioni”. Mettendo assieme le macroaree, secondo la professoressa, “emerge che soltanto attraverso una risposta sistemica, attraverso la costruzione di una rete a livello territoriale che passa dalle forze di polizia fino alla magistratura, è possibile fronteggiare il fenomeno. Punto di forza del corso di formazione è stato proprio non solo mettere in luce criticità ma evidenziare una soluzione, ovvero quella di fare rete”.

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Il Sole 24 Ore, con Alley Oop, è partner del progetto Never again, che ha come obiettivo quello di contrastare e combattere la vittimizzazione secondaria delle donne colpite dalla violenza.

NEVER AGAIN  è un progetto co-finanziato dal Programma Diritti, Uguaglianza e Cittadinanza dell’Unione europea (2014-2020), GA n. 101005539. I contenuti di questo articolo sono di esclusiva responsabilità degli Autori e non riflettono il punto di vista della Commissione europea.

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  • Jmd |

    Vorrei chiedere se fosse utile spiegare come sono stata trattata nel 2014 ,proprio il giorno contro la violenza sulle donne. Purtroppo ho dovuto subire due violenze….Prima da un “civile ” ,dopo da un pubblico ufficiale delle forze dell’ordine. Il fatto è che sono stata io a chiedere aiuto. Sono stata io a urlare di chiamare le forze dell’ordine dopo essere stata vittima di chi ha le “mani troppo lunghe ” e che sarebbe stato visto chiaramente dal video del distributore automatico di tabacchi dove stavo comprando le sigarette. In pieno centro nella città dove,ora la detesto, purtroppo abito. Vorrei chiedere se è possibile riuscire in qualche modo, anche se è passato parecchio tempo, a fare “giustizia “.Se fosse possibile sono sicura che riuscirei a trovare il modo per vivere appieno la mia vita, esattamente come ho fatto fino a quel giorno. Sono passati anni. Nessuno ha pagato per ciò che ho subito…..Io sono l’unica che ha subito due volte un abuso, fisico, pur trattandosi di “toccare seno ecc “,subito dopo psicologico e non solo da parte delle forze dell’ordine che io ho fatto chiamare per avere aiuto. Sento tanta voglia di lottare per difendere i diritti che sono sanciti dalla costituzione e dalla morale di ogni essere umano. Allora??Vorrei avere la possibilità di parlare E denunciare questa triste e ,per me,distruttiva esperienza.

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