Non è mai stata “per sempre” e oggi lo vediamo più di prima: la relazione tra azienda e dipendenti è un contratto comunque a tempo determinato, che deve considerare il cambiamento continuo di entrambe le parti in causa. Cambiano le aziende e le competenze di cui hanno bisogno, perché intorno a loro cambia il mondo, e cambiano le persone, che attraverso diverse fasi della loro vita sono nelle condizioni di dare apporti diversi. Folle sarebbe pensare che tutto possa restare sempre uguale: parole come reskilling e upskilling etichettano il bisogno di professionalità diverse, parole come engagement definiscono un continuo bisogno di rinnovare il coinvolgimento di persone a cui la busta paga da sola non basta più.
E’ il lavoro del presente, e la tendenza è in accelerazione: le grandi dimissioni ne sono un segnale, così come lo è la rinnovata difficoltà nel trovare le persone giuste, i talenti necessari a lavori sempre più dinamici e in movimento. Fioriscono d’altra parte modalità alternative per recuperare le professionalità necessarie a progetti che devono nascere rapidi ed essere pronti a cambiare altrettanto velocemente: realtà come la piattaforma israeliana di freelance Fiverr, arrivata a fatturare 297 milioni di dollari nel 2021, sembrano oggi in grado di interpretare questo cambiamento anche meglio delle storiche aziende di outsourcing.
In questa costante tempesta di ridefinizioni e negoziazioni tra prestazione e valore, un termine tutto italiano appare in assoluta distonia con la realtà, ed è la parola “dipendente”. Il corrispettivo inglese è altrettanto obsoleto e rischioso – impiegato, ovvero utilizzato – ma dipendente vuol dire qualcosa di più, qualcosa di peggio. Il dipendente, infatti, dipende. L’idea di dipendere ben rappresenta una relazione in cui si è legati a doppio filo: da una parte qualcuno che dice cosa fare, dall’altra qualcuno che fa; da una parte qualcuno che attende e “ha bisogno”, dall’altra qualcuno che dà.
Il dipendente non è autonomo per definizione, non è invitato a proporre e a rischiare, non ha un proprio spazio di movimento e, finché dipende, non è libero.
Il dipendente si sente però rassicurato da questa posizione incardinata, perché chi dipende di solito attribuisce oneri e onori al suo “datore”, rinunciando a un po’ di libertà in cambio di un po’ di sicurezza.
Ma è proprio necessario avere un salto così ampio di definizioni tra chi lavora dentro l’azienda e chi vi contribuisce solo per brevi periodi? Se invece il dipendente avesse l’anima di un freelance, che cosa succederebbe al suo modo di lavorare? Gli antichi romani li chiamavano “liberti”, noi potremmo chiamarli più semplicemente liberi oppure “freeworker”, con buona pace di chi non ama gli inglesismi – ormai le definizioni nascono già globali – e sarebbero, in estrema sintesi, dei dipendenti liberi.
Un ossimoro oppure… l’evoluzione della specie? Il freeworker, infatti, non avrebbe certezze assolute su dov’è e che cosa fa, e di conseguenza dovrebbe costantemente tenere aperti occhi e orecchie per comprendere e proporsi per quel che sa fare e per quel che serve.
Il freeworker sarebbe chiamato, come lo sono i freelance, a dimostrare quel che sa fare attraverso i risultati e un approccio commerciale di rilancio costante e di aggiornamento, in un mercato in cui molti altri freeworker farebbero lo stesso.
Il freeworker sarebbe direttamente responsabile della propria formazione, che vorrebbe assolutamente fare per rimanere “competitivo”, e dovrebbe stabilire insieme all’azienda obiettivi e risultati del suo lavoro per dare continuità ai suoi ingaggi.
Il freeworker cercherebbe alleati e sinergie per accertarsi che il progetto vada in porto, comportandosi come un piccolo imprenditore di sé stesso: avrebbe più potere e di conseguenza anche più responsabilità.
Il freeworker non darebbe mai niente per scontato: come un innamorato che si domanda ogni giorno se lo è ancora e al tempo stesso sa di doversi dimostrare degno d’amore.
Il freeworker però fa un po’ paura proprio perché è libero: esitiamo a dargli un contratto a tempo indeterminato, che ne sappiamo se la sua libertà si tradurrà nel fare quel che serve all’azienda? La verità è che l’alternativa al freeworker non esiste più: è la dipendenza a essere diventata insostenibile, non solo a livello umano ma anche di produttività. I dipendenti, nella continua turbolenza del mondo odierno, pesano troppo: non c’è azienda che possa sostenerli e continuare a prosperare. Servono invece persone libere, libere di tirare: di aggiungere all’azienda risorse spesso impreviste e inaspettate, e proprio per questo vitali nel cambiamento continuo.
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