Un sistema sanitario nazionale inospitale e maltrattante nei confronti delle donne che decidono di abortire e del personale non obiettore, che si trovano spesso a subire pratiche discriminatorie e violente. E’ l’accusa dell’associazione Differenza Donna che ha raccolto testimonianze “molto distanti” dal quadro tracciato dal governo italiano.
“Nel febbraio 2022 il nostro esecutivo ha avuto la spudoratezza di affermare davanti al Comitato CEDAW (Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna) che il livello di obiezione di coscienza nel nostro paese non incide sul diritto delle donne di interrompere una gravidanza e che in ogni caso la questione sarebbe controbilanciata dalla mobilità del personale, dai contratti speciali con specialisti in ostetricia e ginecologia e dall’introduzione dell’aborto farmacologico nelle strutture ambulatoriali”, sottolinea Ilaria Boiano di Differenza Donna. Secondo l’avvocata nel nostro Paese non serve una legge ad hoc come in Spagna, ma bisogna seguire le indicazioni dell’Oms e applicare norme che già esistono: “Il nostro codice penale già punisce con vari livelli di pena le condotte moleste, minacciose e violente cui sono esposte le donne che oggi nel nostro paese decidono di abortire”. Il 12 aprile la Spagna ha introdotto nel codice penale l’articolo 172 quater, che punisce chiunque, al fine di ostacolare l’esercizio del diritto all’interruzione volontaria della gravidanza, molesti una donna con atti fastidiosi, offensivi, intimidatori o coercitivi che minacciano la sua libertà, con la reclusione da tre mesi a un anno o con il servizio civile da trentuno a ottanta giorni. Stesse pene previste per chi molesta gli operatori sanitari.
Avvocata, qual è la sua opinione sulla legge spagnola approvata il 12 aprile 2022?
Trovo molto interessante il reato introdotto per due motivi. Il primo è che ribadisce come l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza costituisca diritto fondamentale delle donne a tutela della salute sessuale e riproduttiva (legge organica 9/1985 e legge organica 2/2010), rinviando alla raccomandazione generale 35 del Comitato CEDAW, ovvero: le violazioni dei diritti sessuali e riproduttivi delle donne – come la gravidanza forzata, la negazione o il ritardo dell’aborto sicuro e delle cure post-aborto, la continuazione forzata della gravidanza, l’abuso e il maltrattamento di donne e ragazze che cercano informazioni, beni e servizi sulla salute sessuale e riproduttiva – sono forme di violenza di genere che, a seconda delle circostanze, possono costituire trattamenti degradanti. Il secondo motivo è che offre la fotografia di un problema sociale che vivono le donne in gran parte degli ordinamenti, pur in presenza di un quadro normativo che consente l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza, come l’Italia: la libera decisione e il diritto a un aborto sicuro sono messi in discussione da atti fastidiosi, offensivi, intimidatori o coercitivi che cercano di condizionare la decisione delle donne di interrompere la loro gravidanza, fino a trasformare il trattamento sanitario in un calvario e renderlo inaccessibile.
Un rapporto del 2018 dell’Associazione delle cliniche accreditate per l’interruzione della gravidanza (ACAI) mostra che in Spagna, su 300 intervistate, l’89% delle donne che hanno avuto accesso ai servizi sanitari per interrompere una gravidanza sono state molestate e il 66% minacciate.
Qual è la situazione nel nostro Paese?
Come emerge dall’ultima relazione del Ministro della salute al Parlamento, la quota di obiezione di coscienza risulta ancora molto elevata, specialmente tra i ginecologi (67%) e significativa tra anestesisti e personale non sanitario. In alcune aree del paese le donne non riescono materialmente ad accedere alle prestazioni sanitarie autorizzate dalla legge 194, sempre sotto attacco e quando ricorrono all’Interruzione volontaria di gravidanza o all’aborto terapeutico subiscono trattamenti non dignitosi, finanche inumani e degradanti.
Neppure la loro riservatezza è tutelata, come dimostra la prassi degli ospedali romani e dell’AMA di seppellire i feti, identificando le tombe con le generalità delle donne, all’insaputa di quest’ultime, come denunciato alle autorità dall’associazione Differenza Donna.
Serve una legge specifica come in Spagna per punire le molestie?
Non penso sia necessaria una legge specifica. Ciò che deve cambiare è la prospettiva della politica e di tutti gli operatori, compresi quelli sanitari, da ricondurre nel quadro degli obblighi internazionali in tema di diritti alla salute sessuale e riproduttiva. L’Organizzazione Mondiale della Sanità promuove la pratica dell’aborto sicuro, che implica non solo la disponibilità di servizi di aborto, ma stabilisce standard vincolanti anche per il modo in cui sono strutturati e forniti e per il trattamento offerto alle donne, compresa la tutela della riservatezza del processo decisionale delle donne in ogni fase del trattamento sanitario. In Italia, a ogni intralcio, molestia, minaccia e trattamento non rispettoso della dignità e della salute delle donne corrispondono reati disciplinati dal nostro codice penale e dalla legge 194. Alcuni di questi reati sono procedibili a seguito di denuncia querela, altri procedibili d’ufficio e dunque lo stesso personale sanitario ha l’obbligo di riferirle all’autorità giudiziaria. Ma nei fatti ciò non accade mai e le donne, ma anche il personale sanitario non obiettore, si ritrovano a subire pratiche discriminatorie e finanche violente.
Quali sono le possibili soluzioni?
Bisogna rimettere al centro la rivendicazione della protezione del diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione delle singole donne e ragazze in ogni contesto in cui si adottano decisioni in tema di salute sessuale e riproduttiva. Il 19 aprile la Terza sezione del Consiglio di Stato con la sentenza n. 2928 ha confermato la legittimità della determina con la quale l’AIFA ha eliminato la necessità di ottenere una prescrizione medica per la fornitura del medicinale “EllaOne”, la pillola dei cinque giorni dopo anche per le minorenni. Subordinare al consenso del tutore o dei genitori l’accesso a trattamenti sanitari o a farmaci che riguardano la libertà sessuale violerebbe diritti costituzionalmente protetti.
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