Le categorie ordinano da sempre la realtà in cui viviamo: buono-cattivo, giusto-sbagliato, bello-brutto e così via; tendente all’infinito. Una visione fatta di opposizioni, contrapposizioni e, spesso, lotta. È buono se non è cattivo, è giusto se non è sbagliato, è bello se non è brutto. E viceversa. Dualità che esistono da quando il linguaggio ci ha strappati al regno animale. Polarità che attraversano le nostre vite, il nostro modo di pensare, le posizioni che abbiamo sulle questioni che ci stanno a cuore.
La categorizzazione permette di interagire con gli infiniti oggetti della realtà, unendo quelli con caratteristiche simili e dando loro un nome univoco, con il quale riconoscerli e ordinarli. Una semplificazione necessaria, dal momento che, altrimenti, ci troveremmo ogni giorno a imparare da zero, a dover ri-classificare ogni esperienza e ogni avvenimento all’interno di scatole etichettate con nomi diversi, che il giorno dopo si cancellerebbero.
Filosofi, psicologi e pensatori si sono spesso interrogati su questi meccanismi e su queste sovrastrutture, non solo perché sono il modo in cui conosciamo e interpretiamo l’esistente, ma anche perché ci si è più volte chiesti se sia l’unico possibile. Perché abbiamo tutta questa necessità di categorizzare e nominare le esperienze? Perché sentiamo il bisogno di interpretare e non riusciamo “semplicemente” a percepire? Senza immediatamente classificare e suddividere, spesso in dualità contrapposte? Sono domande che tanti si sono fatti, ma nessun Aristotele, Wittgenstein o Eleanor Rosch (psicologa che negli anni ’80 studiò le categorie come prototipi) si sarebbe immaginato la fluidità che sempre più abbraccia le nostre vite.
Gli ultimi due anni hanno infatti scardinato le categorie di casa-azienda, vita-lavoro, analogico-digitale, malessere-salute, corpo-mente. Il mondo ci appare oggi ibrido, fluido, liquido. Come mai prima. I piani si mescolano, gli opposti si sfumano, i confini si perdono. E ovunque guardiamo, sembra che questa tendenza sia in aumento. Il lavoro ibrido è ormai una realtà, la moda gender-fluid calca le passerelle e riempie i negozi, le identità di genere non binarie sono sempre più dichiarate e i vecchi schemi si sgretolano.
E se a un certo punto le categorie saltassero? Se tutto fosse realmente liquido, come si definirebbe se stessi e il mondo? È possibile farlo attraverso la non definizione, attraverso la sospensione di nomi e classificazioni? I più giovani ci stanno provando, facendo di frasi come “non mi piacciono le etichette” o “non amo essere definito/a” la loro bandiera. Ma è realmente possibile? Il rovescio della medaglia è per molti insostenibile: chi sono se non mi dò un genere di appartenenza, una cittadinanza, una posizione politica, un ruolo lavorativo, se non mi ritaglio una sfera privata e una serie di aggettivi con cui definirmi? In qualche modo è come se cessassi di esistere.
Claudio Naranjo, psichiatra e antropologo cileno, ha affermato che forse è proprio la capacità di sospendere l’atto di definirsi – e definire – che ci permette di non essere prigionieri delle forme che abbiamo creato. In una serie di riflessioni e interviste, Naranjo arriva addirittura ad affermare che l’idea stessa di identità sarebbe un meccanismo di difesa che ci creiamo per riuscire a gestire il mondo e le informazioni che da esso ci arrivano. Come se non fossimo in grado di essere tutto ma dovessimo necessariamente essere qualcosa, inteso come un sottoinsieme di quel tutto, che pericolosamente coincide con la “zona di comfort”. Definirci eccessivamente ci limita nel conoscere e nel fare esperienze: sono questo-non sono quello, credo in questo-non credo in quello, faccio questo-non faccio quello. Definendoci, ci chiudiamo all’interno di un muro fatto di appartenenza a determinate categorie e di non appartenenza ad altre, accompagnata, spesso, da paura e odio verso ciò in cui non ci riconosciamo, verso ciò che non ci descrive e appartiene. Superare le categorie e le strutture che ci diamo diventa difficilissimo, tanto quanto superare – o abbattere – un muro.
La sfida diventa allora quella di provare a interpretare il nuovo con il nuovo: solo così si può comprendere le trasformazioni che stiamo vivendo, la cultura delle giovani generazioni, gli accadimenti inediti ai quali assistiamo e così via. Una mente da principiante, che affronta il cambiamento senza ricondurlo a ciò che già conosce e insegue le domande piuttosto che le risposte. Una posizione scomoda ai più, l’unica, però, davvero in grado di aprirci alla diversità e alla novità. Dentro e fuori le aziende.
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