Da persone a brand: perchè nella «realtualità» sentenziamo su tutto?

dellacqua

Dallo schiaffo di Will Smith la notte degli Oscar, alla body modification di Madonna, a Zelensky più attore o più presidente. Sono mesi ormai che su ogni social leggiamo le opinioni di tutti su questo, quello e quell’altro argomento ancora. E chi non ne scrive direttamente, o condivide il post/tweet di qualcun altro, oppure si lamenta del fatto che tutti ne stiano scrivendo, facendolo così inevitabilmente a sua volta.

Accerchiati da questo dedalo di opinioni, ad un certo punto verrebbe da domandarsi: ma perché sentiamo tutti l’urgenza di comunicare ad ogni costo la nostra opinione su tutto ciò che accade? E perché lo facciamo sempre sentenziando verità – più che opinioni – che difficilmente mettiamo in discussione (almeno pubblicamente)? 

A riguardo ci sono due citazioni che potrebbero venirci in aiuto: la prima di Umberto Eco, la seconda dello psichiatra, psicoanalista Vittorio Lingiardi.

L’imbecille di Umberto Eco

Correva l’anno 2015. Poco prima (ahimè, anzi ahinoi) di lasciarci, il professore, ricevendo l’ennesima laurea a honoris causa, così si esprimeva: “I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli […] Prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli“.

Pur essendo stato fin dall’inizio d’accordo con questa (per alcuni snobistica) affermazione, ho sempre pensato che forse al semiologo e linguista Eco, fosse sfuggito qualcosa. I social sì, avevano (ed hanno) la responsabilità di moltiplicare i bar ovunque, piazzandoci al loro interno dei megafoni per diffondere e replicare le opinioni fino all’angolo più remoto della terra. Ma come si giustifica l’autorevolezza che quelle opinioni diffondendosi acquisiscono? Qui entra in gioco un altro aspetto della diffusione del messaggio, e cioè la forma. 

Mentre l’opinione espressa al bar è pronunciata solo a voce, quella social invece viene (tendenzialmente) scritta. E il fatto di essere scritta, cambia tutto. In primo luogo la fissa e la rende rileggibile, riproducibile ovunque, al contrario di ciò che avveniva con le chiacchiere. Verba volant, scripta manent, dicevano appunto i latini.

In secondo luogo la scrittura, di per sé, è il mezzo con cui da sempre l’umanità trasmette le cose che pensa abbiano valore e che quindi non debbano andare perse con una trasmissione solo “a voce”. E’ quello che è successo spesso in poesia e in letteratura, dove molte opere tramandate oralmente sono state ad un certo punto scritte, proprio per fermare e fissare il loro valore a cominciare dall’Iliade e dall’Odissea.

L’atto stesso dello scrivere la propria opinione in un luogo (seppur virtuale) dove potenzialmente può essere letta (e riletta) da tutti, transustanzia l’opinione in espressione rilevante, e il suo autore da uomo qualunque, a detentore di una visione del mondo da considerare.

Prima dell’avvento di internet e della (finta) “democrazia social”, il mondo si divideva classisticamente in chi scriveva (giornali, libri, romanzi, eccetera) e chi leggeva. Questo non significa certo che ognuno non avesse la propria opinione, ma chi scriveva per essere letto, lo faceva appunto perché aveva una titolarità a farlo. E chi leggeva gli riconosceva quella titolarità. Oggi invece, dove tutti in rete scrivono, leggono e possono essere letti, siamo tutti “scrittori”, convinti di avere l’autorevolezza (oltre che il diritto) di dire, anzi scrivere, di tutto e del contrario di tutto. Ecco come si legittima “l’imbecille” di Eco.

La speranza di essere notati

“La tragedia dei selfie non è fotografarsi nella bellezza affettuosa o buffa di un autoritratto, ma ritrarsi e ritoccarsi per poi riprodursi in migliaia di sé da far rimbalzare sui social. È il bisogno di riconoscimento, per molti è proprio fame. Non di guardarsi, ma di essere guardati da migliaia di occhi. Dietro ogni fenomeno narcisistico c’è sempre la speranza di essere notati, forse per essere amati”

Scrive Vittorio Lingiardi in “Arcipelago N” (edito da Einaudi). Questo “ritrarsi e ritoccarsi per poi riprodursi in migliaia di sé da far rimbalzare sui social  – come bisogno di riconoscimento, anzi vera e propria “fame” di essere visti e amati -, non riguarda solo le foto: anche le parole che usiamo e le opinioni che diamo sono una riproduzione della nostra immagine, intesa in un senso più ampio. 

Chiunque abbia competenze in quelle che oggi si chiamano tecniche di personal branding, sa perfettamente come il proprio storytelling, la narrazione di sé, sia fondamentale per la costruzione di se stessi come brand riconoscibile, ricordabile, e in grado di risuonare ciò che è e rappresenta. Chiara Ferragni docet verrebbe da dire. 

Ponendoci in questa ottica, si capisce bene come scrivere e comunicare ciò che per noi ha valore, e dunque cosa pensiamo e come ci posizioniamo rispetto a più argomenti, sia un’occasione imperdibile per costruire, replicare e comunicare la nostra immagine. Non importa essere titolati o meno, l’importante è scrivere di tutto. Perché scrivendo di tutto si scrive di sé, e scrivendo di sé ci si afferma autorevolmente non più come persone, ma come brand. Ed è proprio questo passaggio da persona a brand che apre anche ad un livello di esistenza nuovo. Un livello generato dai replicatori social, e che non è più solo reale, e non è più solo virtuale. Un livello, ibrido, che personalmente chiamerei “realtuale”. 

Viviamo nella realtualità

La “realtualità” è la dimensione che stiamo ormai vivendo da tempo, senza rendercene ancora davvero conto fino in fondo. Una dimensione con termini e valori in continua evoluzione, dove si vive nel reale con dinamiche del virtuale, e viceversa. Una dimensione dove anche raccontare sempre come la si pensa, significa fissare, brandizzare continuamente ciò che si è.

Quando parlo dello schiaffo di Will Smith, ad esempio, se inizio subito definendo quel gesto “mascolinità tossica” non sto solo dando un’opinione, ma mi sto facendo un meraviglioso selfie di parole. Perché? Usando quella locuzione (e non un’altra), mi sto geolocalizzando” culturalmente. Sto dicendo a chi mi legge, mi segue e mi replica condividendomi, chi sono io in generale, e come la potrei pensare anche su molte altre cose. Ecco dunque come scrivendo dello schiaffo degli Oscar, rendo visibili tutti i valori legati al mio brand persona, fissandoli e diffondendoli attraverso l’attualità. 

Ma c’è di più. Questo passaggio da persona a brand, spiega anche perché le opinioni che scriviamo in rete, siano spesso esposte come verità “immodificabili”. Ditemi, potrebbe mai la Coca Cola mettere in discussione il suo logo o il suo inconfondibile gusto, pubblicamente davanti a tutti? Più ci rafforziamo e comunichiamo come brand, meno discutiamo e ci relazioniamo come persone. La realtualità prevede anche questo.

Esagero? Forse. E forse voglio anche un po’ provocare, lo ammetto. Perché la provocazione ha sempre la funzione di smuovere ciò che si è troppo consolidato. Ma se vogliamo capire come stiamo cambiando, credo non si possa non vedere che dietro la dinamica del “tutti parlano di tutto”, c’è anche uno scivolamento da noi come persone a noi come brand da diffondere e mantenere. Come? Attraverso meccanismi sia tecnico-linguistici (il parlato che diventa scritto) sia marketing-narcisistici (la persona che diventa brand da ricordare).

Per chiudere: anche lamentarsi di tutti che parlano di tutto e del fatto che non ci sia più autorevolezza nel dire le cose, è farsi un selfie di parole. E’ un’opinione che scrivendosi, rivendica l’autorevolezza che pensa le sia stata tolta (dagli imbecilli del villaggio!). E’ un definirsi, un rimarcare ciò che si è, “geolocalizzarsi” rispetto alla cultura a cui si appartiene. 

Ed anche scrivere un articolo su questo “parlare di tutto”, in fondo, è una richiesta di visibilità. Quindi, sì, lo confesso, anche questa volta, ho scritto perché volevo essere visto, oltre che essere letto.

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