Il peso psicologico della guerra, anche da lontano

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La guerra, ancor prima che essere conflitto, bombe, morti, è un’idea. Un concetto, una paura, una possibilità all’orizzonte. Quando questa possibilità si concretizza, la vita si stravolge e le persone si ritrovano alla base di quella che è la celebre piramide dei bisogni di Maslow. Vengono catapultate ai bisogni primari di sopravvivenza.

Cosa succede, invece, a chi sta a guardare? A chi osserva la guerra da lontano? La psicologia, in particolare quella sociale, ci offre innumerevoli spunti per comprenderlo. Ne voglio richiamare tre: identità sociale, interdipendenza del destino e sovraccarico cognitivo.

Identità sociale: noi VS loro

Si definisce ingroup il gruppo di appartenenza, con cui ci si identifica: italiani, bianchi, milanisti, dirigenti ecc. Mentre outgroup quello diverso da sé: francesi, neri, interisti, impiegati. La sola esistenza di questi due insiemi, genera conflitto, più o meno dichiarato ed esplicito. All’interno della guerra ucraina il noi e il loro è evidente. Non succedeva dalla Seconda Guerra Mondiale di avere lo scontro bellico “in casa”. E sta qui la differenza con le altre guerre in Africa, sud America o Medio Oriente. Questa volta, una delle parti coinvolte è vicina, geograficamente e fisicamente – anche nei suoi tratti somatici – a noi. La vicinanza, accanto alla dinamica ingroup-outgroup, è infatti un altro elemento fondamentale. Chi è vicino è simile, ma è anche a portata di sguardo, accanto, prossimo. La percezione del coinvolgimento nel conflitto dunque aumenta enormemente. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore, cita, non a caso, un famosissimo proverbio.

Questa guerra sta minando la nostra idea di Occidente, concetto intellettuale e storico, piuttosto che geografico e fisso, come ben spiegato dallo storico Andrea Graziosi nella sua lettera aperta alla Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea (SISSCO). Mina i nostri valori di libertà e di progresso, inteso, anche, come sinonimo di intelligenza: chi mai oggi, intelligente, progredito, acculturato, finisce per farsi la guerra? La guerra appartiene a quei popoli non occidentali, arretrati culturalmente, lontani. Questo, il pensiero, più o meno consapevole, di molti. Ma non finisce qui.

Interdipendenza del destino

La guerra ucraina richiama la minaccia nucleare, che si sta insinuando sotto la pelle di diverse persone. In psicologia sociale si parla di interdipendenza del destino all’interno del più ampio concetto di coesione di gruppo: non è sufficiente l’interdipendenza del compito, ossia dedicarsi alla stessa attività, attraverso un intento comune. Affinché le persone si sentano davvero dalla stessa parte, serve anche che siano accomunate – o percepiscano di esserlo – dal medesimo destino all’orizzonte. Il nucleare ci interessa e accomuna al popolo ucraino perché un’esplosione non rimarrebbe confinata geograficamente: le conseguenze sarebbero senz’altro dirette, ma anche indirette. Le radiazioni viaggiano per chilometri e i loro effetti possono manifestarsi anche dopo anni. Il detto “siamo tutti sulla stessa barca” può essere di conforto, ma in alcuni casi diventa una condanna.

Sovraccarico cognitivo

La vicinanza all’Ucraina – nelle sue diverse sfaccettature – insieme alla percezione di un possibile, tragico, destino comune, porta molte generazioni a sentirsi coinvolte, per la prima volta, in una guerra. Come diretta conseguenza, la necessità e il bisogno di informarsi frequentemente, partecipare attivamente al dibattito, contribuire – con donazioni o azioni dirette – a offrire il proprio supporto.

Il peso psicologico del conflitto, quando questo lo si vive da vicino ma non tocca concretamente il suolo del proprio Paese, è condensato nell’informazione. A questo proposito, si parla di sovraccarico cognitivo, ossia il fenomeno per il quale si riceve o ricerca una quantità eccessiva di informazioni. Si perde così la lucidità necessaria per analizzare la situazione, prendere una decisione o scegliere dove focalizzare l’attenzione.

All’interno di un mondo digitale come quello in cui viviamo, il rischio è dietro l’angolo. Tanto che negli ultimi anni si è imparato a utilizzare il termine “infodemia”, ossia l’eccessiva presenza di informazioni che rende difficile alle persone trovare fonti affidabili e indicazioni attendibili. In questa confusione, il sovraccarico cognitivo appare più che normale. Sono molte, infatti, le persone che trascorrono una considerevole quantità di tempo nel cercare e leggere notizie, con la speranza, la maggior parte delle volte, di placare l’ansia dettata dall’incertezza del momento. Con la conseguenza, però, che quell’ansia che si tenta di arginare informandosi, finisce per alimentarsi. Si crea così un circolo vizioso che incentiva la ricerca compulsiva e mina il benessere mentale.

Il peso psicologico della guerra ci interessa in prima persona: ci mette di fronte ai nostri limiti e alla fragilità del nostro equilibrio e di quello del “nostro Occidente”. Motivo per cui, voglio concludere citando le parole con cui Andrea Graziosi ha terminato la sua lettera: “Mi piacerebbe molto che davanti a tutto questo almeno pensassimo.”

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