«Non credo nella donna, o nell’uomo, soli al comando. Nel lavoro come nella vita privata, per fare bene le cose serve una squadra che funzioni, servono competenze e condivisione delle conoscenze». Il manifesto programmatico di Maria Porro, giovane imprenditrice dell’arredo, nominata lo scorso luglio presidente del Salone del Mobile di Milano, è tutto in queste parole: responsabilità, spirito di servizio e condivisione.
E una buona dose di coraggio, aggiungiamo noi: 38 anni a fine ottobre, una laurea all’Accademia di Brera e una carriera come scenografa e costumista per il teatro e i grandi eventi, Maria Porro ha deciso alcuni anni fa di dedicarsi completamente all’azienda di famiglia, fondata in Brianza dal bisnonno Giulio nel 1925, di cui è direttore comunicazione e marketing. Ha tre figli piccoli (due bimbe di 5 e 3 anni e un maschietto di appena 16 mesi), ma questo non le ha impedito di accettare la nomina a presidente di Assarredo (l’associazione industriale che rappresenta le aziende dell’arredamento), nell’estate 2020, e ora quella di presidente del Salone del Mobile, la più grande manifestazione internazionale dell’arredo-design, che proprio in questi giorni è in corso a Milano.
Incarico prestigioso, certamente, ma anche delicato, in quest’epoca di pandemia che ha portato all’annullamento dell’edizione 2020 e all’ideazione di un format speciale per quest’anno, il «Supersalone» curato dall’architetto Stefano Boeri. Un’edizione preceduta da un confronto acceso tra gli imprenditori del settore, che ha portato lo scorso aprile alle dimissioni del precedente presidente del salone Claudio Luti, di cui Maria Porro ha raccolto il testimone. «Con spirito di servizio», precisa. «So che nel consiglio del Salone siedono imprenditori capaci, che guidano aziende di grande valore. Porterò il mio punto di vista e il contributo che una giovane donna può dare, ma con grande rispetto e amore per quello che il Salone del Mobile rappresenta».
Lei lo sa bene, la sua azienda ha sempre partecipato al Salone. Che cosa significa per lei assumersi questa responsabilità?
Sono convinta che il Salone del Mobile sia l’ingrediente motore fondamentale per tutto il settore, come lo è stato per la mia azienda. Grazie anche a questa fiera, la Porro ha costruito la sua storia e la sua dimensione internazionale e oggi il Salone è il punto di riferimento del design in tutto il mondo. Ce lo abbiamo noi, a Milano: dobbiamo continuare ad alimentarlo, a costruirlo, innovarlo. Io sono pronta a mettermi in gioco, come ha fatto Claudio Luti prima di me. È importante che sia un imprenditore a guidare questa manifestazione, perché il Salone è proprio delle aziende ed è un patrimonio condiviso.
Il suo curriculum è diverso da molti imprenditori: non ha studiato Economia, Giurisprudenza o Ingegneria gestionale. È una scenografa: come è avvenuto il passaggio dal teatro alla fabbrica?
Ho studiato a Brera come scenografa e costumista e di questo ringrazio mio padre e mia madre, entrambi architetti, che mi hanno educata alla libertà di scelta. Ho sempre amato molto la letteratura, la musica e l’architettura, quindi ho scelto scenografia perché il teatro contiene questa multidimensionalità che mi affascinava: nel teatro c’è la musica, c’è lo o spazio, c’è la persona. Già mentre studiavo, ho iniziato a lavorare come assistente di scenografi e costumisti: ho realizzato molti spettacoli soprattutto in Francia, Australia, e anche in Italia. Ma ho lavorato anche come organizzatrice di grandi eventi. Ad esempio, ero nella squadra che ha curato le cerimonie di apertura e chiusura delle Olimpiadi di Londra e Sochi. È un settore in cui si trovano molti italiani: c’è poco da fare, come organizzatori siamo i migliori.
E intanto iniziava a lavorare nell’azienda di famiglia?
Sì, ho sempre tenuto un legame: mentre facevo l’università, ad esempio, ho curato assieme all’architetto Piero Lissoni Material House, una collezione speciale di progetti. E comunque ogni anno aiutavo durante il Salone del Mobile, fino a che ho iniziato a seguire l’apertura dei nostri negozi nel mondo e… A un certo punto ho dovuto scegliere, perché non riuscivo più a fare tutto, nel frattempo ero anche diventata mamma. Ho scelto l’azienda, un lavoro diverso.
Le manca quel mondo?
No, sono felice della mia scelta. Anche perché ci sono molte intersezioni tra i due mondi. Per me la scenografia è l’architettura dell’impossibile e del sogno. Ha una natura effimera, per cui costruisci e poi distruggi un progetto e ti rimane solo il ricordo di quello che hai visto. Il design, al contrario, ha la responsabilità di creare oggetti fatti per durare, ma entrambi hanno come obiettivo generare bellezza. E la bellezza è qualcosa che rimane: nel ricordo, per quanto riguarda la scenografia, e nella quotidianità, per quanto riguarda il design, dove talvolta è è persino più importante della funzione. E poi un’altra grande affinità è il lavoro di squadra. Per fare un mobile, come per costruire uno spettacolo, c’è bisogno di mettere insieme tante competenze diverse. Una sarta di scena, un cantante viennese e un primo violino devono lavorare all’unisono perché uno spettacolo funzioni. Allo stesso modo, per la costruzione di un arredo devono funzionare assieme le mani sapienti di un artigiano che sa come lavorare il legno, la penna di un grande architetto o designer e la competenza dell’azienda, che ci mette la parte di industrializzazione.
Le competenze manageriali le ha imparate sul campo?
Cerco di studiare sempre tutto, penso che la multidisciplinarietà sia importante. Studio economia, mi informo sui cambiamenti dei sistemi produttivi. Avendo lavorato nella gestione di grandi eventi, ho imparato a mettere insieme l’aspetto creativo con quello produttivo, facendo quadrare i conti, che è la cosa fondamentale. Ma sono molto curiosa, a tutto tono: vado a vedere i nuovi macchinari che arrivano sul mercato, visito le fiere, ma continuo ad approfondire anche la dimensione creativa e stilistica del nostro mestiere, che passa attraverso la cultura. Quando faccio un viaggio di lavoro, ad esempio, riservo sempre del tempo per andare a vedere i musei. È importantissimo. Il nostro obiettivo è far funzionare le cose e per questo serve una buona squadra, con competenze manageriali e creative.
Si dice sempre che proprio queste alchimie abbiano fatto la grandezza del made in Italy. Oggi è ancora così?
C’è un terreno fertile che va coltivato, anche con nuove leve. Sono contenta, perché vedo ad esempio che, nella mia azienda, l’età media dei lavoratori è bassa, anche in fabbrica: grazie ai nuovi macchinari, dotati di tecnologie avanzate, c’è una nuova dimensione digitale che attrarre anche i più giovani. Ma c’è anche una riscoperta dei vecchi mestieri, si è tornati a riconoscere i valori dei saperi artigianali e le aziende che riescono a mescolare queste due cose sono sulla strada giusta.
C’è un passaggio generazionale anche a livello di direzione delle aziende?
Sì, e mi sento in buona compagnia: ci sono tante donne che stanno entrando, anche in ruoli decisionali, e ci le nuove generazioni che entrano con competenze innovative, dalla comunicazione al digitale, ma anche forti del fatto che spesso sono cresciute in quell’ambiente, perciò hanno un legame anche affettivo con la storicità del nostro settore. Inoltre, la nostra è una generazione di cittadini del mondo, io stessa mi sento così. La dimensione internazionale nel nostro settore è molto importante e questo viene rafforzato dal fatto che anche i giovani che arrivano alla guida delle aziende hanno una grande apertura al resto del mondo.
Lei è giovane, è una donna, ed è mamma di tre bambini piccoli. Fino a non molto tempo fa, almeno in Italia, non si trovavano molti casi come il suo. La sua esperienza servirà a innovare l’azienda?
Penso sia importante che ci siano donne nei livelli dirigenziali delle aziende, perché aiutano in quel bilanciamento tra vita e lavoro che sta cambiando. Io ad esempio, per quanto posso, cerco di essere disponibile su aspetti come la flessibilità di orario che, laddove possibile, è uno strumento importante, un grandissimo aiuto per chi deve gestire una famiglia, uomo o donna che sia. Questo anno e mezzo di pandemia ci ha insegnato a usare lo smartworking: se ben dosato e ben gestito, penso sia di aiuto, può essere strumento molto utile per chi ha necessità reali. E poi credo che bisognerebbe riconoscere la maternità e la paternità quasi come dei crediti formativi, perché sono un’esperienza che insegna a gestire meglio il proprio tempo.
Lei come fa, con tutti questi incarichi – azienda, associazione, e ora il Salone?
Con tanta organizzazione. Però ammetto che sono fortunata: ho due nonne molto presenti e attive, che mi aiutano molto e, soprattutto, ho l’aiuto di mio marito. L’altra metà della luna gioca un ruolo fondamentale: anche in questo caso, come nel lavoro, è un lavoro di squadra e di qualità rispetto alla quantità. L’importante è riuscire a dedicare tempo di qualità, sia alla famiglia, sia al lavoro.
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