Valentina subisce violenza sessuale una sera d’estate dopo la maturità. Prova a denunciare, ma non riesce. Incontra persone sbagliate. Passano 10 anni e decide di raccontare. Scrive un libro dal titolo X, una lettera a suo fratello – il suo confidente – che non le ha creduto e si è schierato con lo stupratore. Con il SUO stupratore, amico di tutti, anche di Valentina, non un MOSTRO, ci racconta. “Quello che volevo fare con X è far capire che le storie di violenza non sono eccezionali, lo stupratore non è – a seconda della tesi che si cavalca – l’immigrato, un pazzo, un malato di mente, il mostro. Qualcuno ha scritto: il suo compagno di scuola si è trasformato in un mostro e l’ha violentata. Nessuno si è trasformato in un mostro, non c’era la luna piena e se c’era non era una problematica per lui”, spiega Valentina.
Il suo obiettivo era raccontare la sua odissea, seguendo il fil rouge della violenza maschile, dalla famiglia al lavoro passando attraverso la scuola. “Ho voluto unire i puntini per mostrare che la violenza non è una cosa individuale ma sistematica. Volevo normalizzare determinate situazioni e far capire che chi fa violenza spesso non è una persona lontana da noi. Perché se passa l’idea che lo stupratore è un pazzo, non può essere il compagno di banco che va bene a scuola. Ma non è così. Volevo cambiare la narrazione. Si parla di stupro solo in casi eccezionali quando alla violenza segue la morte o quando sono coinvolte persone famose. Lo stupro non vende, mi ha detto il primo editore a cui ho portato il manoscritto”.
“Quando sei vittima di violenza non sai come comportarti – racconta ancora Valentina – Non sai che bisogna andare entro 48/72 ore a far rilevare le tracce dei rapporti, a fare un certificato. Sono cose che non ti vengono dette. E se anche i libri, la televisione, il cinema continuano a far vedere lo stupro come qualcosa di eccezionale e di efferato, le persone a cui non viene puntato un coltello alla gola non lo riconoscono come tale. Si colpevolizzano e vengono colpevolizzate”. Valentina ha seguito il suo sogno: “Io volevo già fare la scrittrice, la violenza mi ha rallentato. Il lieto fine non è individuale, è collettivo, spero di aver messo il mio mattoncino per cambiare la società per far sentire le persone meno sole”, conclude.
E’ riuscita a cambiare qualcosa anche Vanessa: grazie a lei e alla sua avvocata, Anna Maria Busia, è nata la legge sugli orfani di crimini domestici, in vigore dal 2018. Vanessa aveva sei anni nel 1998 quando il padre uccise la madre. Dopo una battaglia durata 20 anni è riuscita a togliere all’omicida – uscito di prigione – il diritto alla pensione di reversibilità e all’eredità. Ora Vanessa vive a Manchester, ha una laurea in criminologia e lavora per il governo. Monitora le persone ad alto rischio rilasciate in anticipo dal carcere o in comunità, per ogni tipo di crimine. “Per la maggior parte mi occupo di casi di violenza domestica, di stupratori, pedofili, di crimini contro bambini e reati violenti in generale” sottolinea Vanessa. “È qualcosa che ho voluto fare anche a causa del mio passato, che mi ha sempre spinto a voler capire il crimine, perché certe cose succedono – spiega – Con questo lavoro ho l’opportunità di dare una seconda possibilità a persone che hanno commesso crimini atroci. Io credo che col giusto supporto possano essere riabilitate, in modo da evitare ulteriori vittime in futuro. Non penso che il crimine possa essere eliminato dalla faccia della terra, ci saranno sempre persone che rompono le regole, che compiono omicidi e violenze, bloccare il recidivismo è molto importante”.
Nella vita Vanessa ha dovuto combattere battaglie durissime. “Prima c’è stato il trauma, ho vissuto con i miei zii e i miei cugini, c’è stato il percorso psicologico – ci racconta – Nel mio paese mi sono sempre sentita etichettata, ero l’orfana, la figlia di. Mi sentivo diversa, per questo forse ho deciso di andare all’estero, per tagliare chi ero e costruire una nuova identità. A 17 anni ho vissuto per un anno in Norvegia, pensavo di esserne uscita, ero quasi adulta”. Poi la lunga battaglia per togliere all’omicida il diritto alla pensione. “Abbiamo dovuto contattare i media, è stato come rivivere tutto”, spiega Vanessa che per il momento è riuscita a lasciare il passato alle spalle, anche se “c’è ancora da fare”.
Come Vanessa tante donne, dopo lunghe battaglie, riescono a rifarsi una vita, con il lavoro, con i figli. Donne che vivono e hanno un futuro. Secondo D.i.Re, associazione che comprende circa 80 centri antiviolenza in Italia , oltre il 60/70% delle donne dopo un percorso nei centri raggiunge l’autonomia. “Ogni anno accogliamo circa 20-21mila donne: 13/15mila sono donne nuove, ovvero che si rivolgono per la prima volta a un centro. Per le restanti donne, entrate nel centro l’anno prima, non abbiamo un vero follow up ma possiamo affermare con buoni margini di precisione che c’è stata una riconquista dell’autonomia, orizzonte di ogni percorso di fuoriuscita dalla violenza”, spiega Antonella Veltri, presidente D.i.Re. Il percorso ovviamente non è uguale per tutte, a volte ci sono donne che interrompono il ciclo, l’obiettivo è assecondare i loro tempi.
Per la lotta alla violenza di genere, ragazzi e uomini sono la base da cui partire. “Abbiamo cercato di affrontare un fenomeno sommerso che sta emergendo con grande forza“, ci spiega Marina Calloni, responsabile di Un.i.re (Università in rete contro la violenza di genere) network composto da 10 università, con capofila Milano Bicocca. Obiettivo del progetto è “applicare la Convenzione di Istanbul contro la violenza di genere in ambito accademico a livello di formazione studenti e insegnati; nella ricerca con la raccolta dati; nel rapporto col territorio con le associazioni e i centri antiviolenza per lavori di sensibilizzazione anche nelle scuole”. “I ragazzi hanno reagito molto bene – sottolinea Calloni – dobbiamo lavorare molto sui maschi, che sono i nostri maggiori alleati. Arrivano inoltre input molto interessanti da studenti che hanno visto forme di violenza in famiglia”.
“Come uomini non possiamo solo porci in una facile condizione di condanna e denuncia, è facile chiedere pene più severe per il violento, il tema è riconoscere che ognuno di noi è dentro quelle dinamiche”, afferma Stefano Ciccone di Maschile Plurale. “Tutti sono d‘accordo a condannare. Ma quando emerge una dinamica di violenza nel nostro gruppo di lavoro, amici, famiglia è molto più difficile perché con quell’uomo abbiamo legami e rapporti. Tra la condanna che salva la coscienza o l’omertà dobbiamo essere in grado di fare la fatica di misurarci con la nostra complicità a quei meccanismi, sapere che quelle cose mi riguardano”, conclude.
Il reportage completo si può ascoltare nel podcast STORIE DI CHI VIVE, sesta e ultima puntata del progetto DONNE IN ROSSO di Radio24 contro la violenza sulle donne a questo link.
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