Direttrice d’orchestra, per ragioni linguistiche e storiche

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Speranza Scappucci – direttrice d’orchestra

“Le professioniste hanno un nome preciso. Nel mio caso è direttore d’orchestra”. Le parole di Beatrice Venezia sul palco di Sanremo, alla penultima serata del festival, per molti e per molte hanno risuonato come un gong, più forti delle stesse canzoni in gara. Ci hanno riportato alla memoria recente Elisabetta Casellati, Giulia Bongiorno, per citarne alcune.

E non si tratta di spaccare il capello in quattro. Non è la voglia di fare le femministe a tutti i costi, incluso nel fine settimana.

È, invece, una questione senza tempo. Quella di riprenderci il nostro spazio su terreni per anni dominati da soli uomini è una conquista lenta e faticosa che le tante direttrici che ci tengono a farsi appellare “direttori” rendono – anche inconsapevolmente – pressoché impossibile.

Già negli anni Ottanta si avvertiva il bisogno di un cambio di passo. In questo Paese il gender gap è ormai un fossato difficilmente colmabile. L’ultimo report del World economic forum ci colloca al diciassettesimo posto in Europa e al settantaseiesimo nel mondo, dopo Tailandia e prima di Suriname. Al mondo servirebbero cent’anni per ricondursi a parità.

E dal momento che non sono solo parole, è forse il caso di fare un po’ di ripasso, perché è di storia che stiamo ragionando più che di sola grammatica o linguistica.
Torniamo indietro, alla Prima Repubblica. Era il 12 giugno del 1984 quando l’allora governo Craxi sentiva l’esigenza di istituire la “Commissione nazionale per la realizzazione della parità tra Uomo e Donna presso la Presidenza del Consiglio“. L’organo era una novità assoluta per l’Italia. Era composto da 30 donne ed era presieduto da Elena Marinucci, senatrice socialista che quel cambio di passo aveva fortemente voluto.

wan-san-yip-gw6xmrg2ffc-unsplashPer quanti si chiedono chi sia, il suo lavoro è recuperato alla memoria da un libro necessario, di Anna Maria Isastia. Si intitola “Una rivoluzione positiva. Conversazioni con Elena Marinucci” e il consiglio è di leggerlo, perché aiuta a sapere, e sapere aiuta a capire.

Lo scopo della Commissione era proprio quello di lavorare per ricondurci a parità. Adeguare la legislazione vigente, la normativa, per colmare il gap. Cominciano così le azioni positive, quello è il punto di partenza.

È all’interno di quel programma che la Commissione Marinucci realizzava “Podio Donna“. Con la collaborazione del Teatro dell’Opera di Roma partivano così – nell’ottobre del 1986, quando Beatrice Venezi non era nemmeno ancora nata – una serie di concerti, diretti da sole donne. Ad aprire erano professioniste di altre nazioni, per scoperchiare un vaso di Pandora che metteva in luce il baratro che separava – e separa – l’Italia dal resto del mondo.

L’iniziativa si prefiggeva l’obiettivo di togliere finalmente la bacchetta dalle mani degli uomini, sfilarla dal monopolio dei direttori per consegnarla alle tante, tantissime, direttrici. Donne che non potevano svolgere la professione, malgrado la competenza e la professionalità, nonostante il merito, insomma. Basta quindi fare un passo indietro, per capire come la voglia e la necessità di coinvolgerle nei lavori fino ad allora reputati per soli uomini (e a quelli riservati) sia una battaglia antica.

Servirebbe, probabilmente, una dose in più di rispetto. Ce lo aspetteremmo da chi quel podio lo ha conquistato, magari senza la consapevolezza piena che se lo ha fatto è grazie a chi ha lavorato prima e glielo ha permesso.

Ecco perché la precisazione della direttrice sul palco dell’Ariston suona come una rivendicazione maschilista e ingenerosa. Non è – potremmo dirle – una questione personale di cui assumersi la responsabilità; è una questione universale. Negarlo denota la necessità di tornare su certi passaggi. La nostra storia, anche quella recente, è percorso da rifare all’indietro tutte le volte che serva, con umiltà e con onestà intellettuale.

Perché se davvero vogliamo cambiare le cose, non possiamo sempre fare spallucce.

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  • Carla |

    L’esternazione della Venezi dimostra poca consapevolezza del proprio essere donna e poca dimestichezza con l’analisi grammaticale, che sicuramente avrà imparato alla scuola primaria. Il sostantivo direttor-e è un nome comune che si declina, secondo il genere della persona che riveste il ruolo, al maschile in -e e al femminile in -ice o anche in-a, anche se quest’ultima declinazione è meno utilizzata, ma corretta.

  • Fiorella Franceschini |

    La precisazione del maschile della B.Venezia è errata, non per questioni di femminismo, ma solo perché vorrebbe motivare una superiorità del direttore cioè del maschile rispetto al termine femminile. In qualsiasi altro consesso si usa direttore o direttrice a seconda de la direzione di una impresa o di una scuola o di un ministero senza creare una graudiatoria.

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