Titoli a effetto e racconti di parte: le ferite dei media alle donne vittime di violenza

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E’ stato colto da un raptus “senza fine” dopo “l’ennesimo litigio”, il “dramma di un padre separato”, “l’ho uccisa per gelosia”, “lui lavorava, lei stava dalla mattina alla sera al telefonino”. O, ancora, come nel caso del femminicidio di Ilenia Fabbri: secondo un quotidiano, il movente dell’ex marito che l’avrebbe fatta uccidere da un sicario, stava nelle “pretese” economiche della donna. Non questioni economiche tra i due, ma “pretese” di lei.

Il primo gennaio 2021 è entrato in vigore l’aggiornamento al Testo unico dei doveri del giornalista che conferma e sottolinea il dovere del rispetto delle differenze di genere, in particolare nei casi del racconto di femminicidio, violenza, molestie, discriminazioni.  Nonostante questo, e nonostante negli ultimi anni un miglioramento nella cultura dei giornalisti che si occupano di violenza sulle donne, capita ancora di leggere o ascoltare nei media frasi e titoli come quelli succitati. “Un assassino – raccontava Angela Romanin, la responsabile della formazione della Casa delle donne di Bologna che ci ha lasciato da poco – in un caso di cronaca veniva chiamato ‘fidanzatino’ su tutti i giornali. Le vittime di violenza spesso vengono denudate e stuprate una seconda volta”.

Con queste poche parole Romanin fotografava il fenomeno della vittimizzazione secondaria delle donne. Ci spiegava, cioè, le conseguenze dei titoli o racconti sbagliati: i media, alla stregua di tribunali, forze di polizia, assistenti sociali, possono rendere di nuovo vittima la donna, sbagliando terminologia, angolo di visuale, titolo, fotografia, associazioni o contestualizzazione.  L’errore più comune è guardare al caso ancora troppo dal punto di vista di lui, citando giustificazioni che diventano moventi. E’ invece auspicabile, come afferma già nel 2016 il Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti, facendo proprio il documento della Federazione internazionale dei giornalisti, “nei casi di femminicidio adottare il punto di vista della vittima, in modo da ridarle la dignità e l’umanità che, in una cronaca quasi sempre morbosamente centrata sulla personalità dell’omicida, sono spesso perdute”. Un altro errore in cui si incappa è quello di fornire dettagli non essenziali della vittima di violenza. Come dice una recente sentenza della Cassazione (n. 4.690), il giornalista non deve pubblicare i particolari dei fatti e le generalità della donna vittima di violenza da parte del marito, a meno che non siano essenziali per la notizia e non ci sia un interesse dell’opinione pubblica a conoscerli. Una valutazione che va fatta caso per caso e che fa scattare, in assenza delle condizioni, il diritto al risarcimento per la lesione della dignità della persona.

Si parla ancora di raptus nei femminicidi e si cerca l’empatia col carnefice

Purtroppo da inizio anno si contano oltre 10 femminicidi al ritmo di uno ogni 3-5 giorni. Nel caso del padre di Carmagola che uccide moglie e figlio di cinque anni, alcune testate parlano ancora di “raptus senza fine” o “raptus di follia” senta tenere in considerazione che a livello scientifico il raptus è riconosciuto solo nel 5% dei casi di femminicidio, nella maggioranza dei casi il delitto è figlio di una cultura patriarcale ben radicata. “Noi come G.I.U.L.I.A. (GIornaliste Unite LIbere Autonome) – racconta la presidente Silvia Garambois – ci occupiamo da almeno 10 anni di come scrivono i giornali, da quando, nel 2011 abbiamo iniziato a trattare questo tema.  Allora era ancora normale scrivere ‘ha ucciso per un raptus’ e il termine femminicidio non era ancora diffuso. Era una situazione sconfortante, nei media si trovava tutta una sequela di ‘gelosia’,‘passione’ o ‘raptus’.  Da allora oggettivamente, anche grazie al nostro lavoro, le cose vanno un po’ meglio”. Una delle novità positive di oggi, sottolinea Garambois, è la capacità, dimostrata da alcuen testate, di scusarsi: “questo è già un grande passo avanti, le scuse hanno un valore prezioso, ammettere l’errore non è una questione da poco”. Prima gli esempi negativi, prosegue Garambois, “erano a iosa, ora sono diminuiti molto, ma certamente non si è riusciti ancora a  cambiare la narrazione che è ancora dalla parte di lui”. A volte, aggiunge Nadia Somma, consigliera di D.i.Re-Donne in rete contro la violenza e autrice del libro “Le parole giuste”, la narrazione “segue  lo schema secondo il quale  il carnefice era buono, poi arriva il fulmine a ciel sereno e lui ammazza la donna”.  In altre circostanze  “la ricostruzione della violenza spinge all’empatia verso quel pover’uomo che una donna egoista ha deciso di abbandonare. La vittima viene raccontata come una donna che si separa, toglie i figli al marito, i soldi, la casa. Il punto di vista, insomma, è quello dell’assassino”.

Lo stupro delitto che attira ancora forti pregiudizi, conta la disparità economica

Come il femminicidio anche lo stupro è un delitto che attira forti pregiudizi e per il quale spesso si adotta il punto di vista dello stupratore. “Quando la disparità socio-economica è molto ampia ed è a sfavore delle donne, sui alcuni media – dice Nadia Somma – c’è la messa in dubbio della credibilità della vittima.”. Quando in cui l’uomo è ricco e potente, infatti, “l’illazione è che la ragazza sia una escort. Si pensi al trattamento della giovane che ha denunciato la violenza per mano dell’imprenditore Federico Pesci. Su una testata locale hanno colpevolizzato la ragazza”. Il caso di Genovese, per cui anche la testata per cui scriviamo è caduta in errore, scusandosi immediatamente, si ascrive a questa tipologia.  “In alcune trasmissioni televisive prima hanno invitato tutti gli amici di Genovese, poi finalmente le ragazze che, bisogna aggiungere, sono state trattate con un certo tatto, ma resta amarezza –aggiunge Somma perché la tv non è certamente il luogo adatto per far rivivere alle vittime quello che hanno subito”.  Per la rappresentazione dei casi di violenza, in televisione, peraltro, l’asticella dell’attenzione dovrebbe essere ancora più alta visto che, come scriveva la Commissione Jo Cox, gli spettacoli di intrattenimento e di info-tainment sembrano essere  più spesso uno spazio dove hanno libero sfogo gli stereotipi di genere più vetero e talvolta vere e proprie volgarità sessiste”.

Un altro caso di stupro in cui i media talvolta non sono obiettivi, secondo Somma, è quello effettuato da un uomo in divisa. “Si pensi – ricorda – allo stupro delle studentesse americane, che ebbe una giusta condanna, ma per 20 giorni le ragazze sono state calunniate. Si diceva che si fossero assicurate dal punto di vista sanitario apposta contro lo stupro quando, invece, per gli studenti stranieri questa è una prassi”.

Il problema dei titoli che cercano la sensazione o il click facile

Se la narrazione all’interno degli articoli di stampa è migliorata, il problema è molte volte rappresentato dai titoli che cercano la sensazione, il click facile su web, il consenso. A volte sono titoli tra virgolette, ma evidenziare in un titolo un virgolettato fuorviante può inficiare tutto il racconto. “Se un virgolettato – chiarisce Silvia Garambois – è nel pezzo, e poi viene anche sbattuto nel titolo, tipo il recente “pentito, ma lei mi esasperava”  oppure ‘lei era sempre al telefonino’ o anche  il titolo su Elena Ceste ‘una come lei non si riusciva a raddrizzare’, penso che il virgolettato non salva, la responsabilità resta nostra”.

I giornalisti, aggiunge Marina Castellaneta, docente di diritto internazionale all’università di Bari, “devono rispettare le regole previste nel Testo unico dei doveri del giornalista che ha introdotto l’articolo 5bis chiedendo anche di evitare stereotipi di genere quando si riportano vicende di violenza contro le donne, nonché espressioni lesive della dignità umana o che sminuiscano la gravità del fatto. I titoli, inoltre, non devono riflettere un linguaggio che afferma stereotipi e va tenuto conto, come più volte affermato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che la violenza contro le donne non è solo fisica. Talvolta, un titolo o un articolo possono avere un impatto psicologico sulle donne e aumentare il senso di isolamento che spinge le vittime a ritirare le denunce”.

Il problema è culturale, la formazione di giornalisti e comunicatori unica via

L’articolo 5bis del Testo unico dei doveri del giornalista intitolato “Rispetto per le differenze di genere” prevede in particolare che nei casi di femminicidio, violenza, molestie, discriminazioni e fatti di cronaca, che coinvolgono aspetti legati all’orientamento e all’identità sessuale, il giornalista debba evitare gli stereotipi di genere, le espressioni e immagini lesive della dignità della persona. Si deve inoltre attenere a un linguaggio rispettoso, corretto e consapevole, limitandosi all’essenzialità della notizia e alla continenza. Va poi prestata attenzione a non alimentare la spettacolarizzazione della violenza, a non usare espressioni, termini e immagini che sminuiscano la gravità del fatto commesso. Il giornalista deve assicurare, valutato l’interesse pubblico alla notizia, una narrazione rispettosa anche dei familiari e delle persone coinvolte. “Anche se alcune cose erano evincibili dai principi generali del nostro testo deontologico, le puntualizzazioni fatte – ha commentato il presidente dell’Ordine dei giornalisti, Carlo Verna –  rendono ancora più chiare le prescrizioni irrinunciabili di un linguaggio rispettoso che eviti gli stereotipi di genere, e costituiscono un contributo di civiltà che il mondo del giornalismo italiano ha voluto dare in un tempo storico molto triste per il perpetuarsi inaccettabile e sempre ingiustificabile delle violenze sulle donne”. La consapevolezza del problema e delle soluzioni da mettere in atto è sentita in seno alla categoria.  Perché allora non si riesce a eliminare la vittimizzazione della donna attraverso i media? Il problema “è culturale”, chiosa Silvia Garambois. Insomma affonda le radici in quella società patriarcale che è il terreno fertile della violenza. La soluzione si trova, quindi, in un lungo lavoro di formazione: di giornalisti, comunicatori, blogger, uffici stampa. Formazione a tutti i livelli e gradi: non basta il cronista preparato se poi al desk c’è qualcuno che fa un titolo sensazionalista, come non è sufficiente che i giornalisti professionisti siano formati se poi il collaboratore locale che si occupa di molteplici eventi non ha gli strumenti per trattare questi delicati casi.  A volte, infine, anche giornalisti avveduti cascano nell’errore di condividere, senza usare filtri, stereotipi che provengono dal racconto di polizia, carabinieri,  magistrati o altre categorie . “Oggi – esemplifica la presidente di G.I.U.L.I.A. – i mattinali dei carabinieri tendono talvolta al romanzesco e gli stereotipi sono diffusi tra gli uffici stampa di categorie come polizia e  carabinieri”. Per tutte queste ragioni la chiave sta sempre nella formazione, non solo dei giornalisti, ma anche delle altre categorie che vengono a contatto con le vittime.

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Il Sole 24 Ore, con Alley Oop, è partner del progetto Never again, che ha come obiettivo quello di contrastare e combattere la vittimizzazione secondaria delle donne colpite dalla violenza.

NEVER AGAIN  è un progetto co-finanziato dal Programma Diritti, Uguaglianza e Cittadinanza dell’Unione europea (2014-2020), GA n. 101005539. I contenuti di questo articolo sono di esclusiva responsabilità degli Autori e non riflettono il punto di vista della Commissione europea.

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