L’apertura delle scuole è “Imprescindibile e non più procrastinabile” ha scritto il Comitato tecnico scientifico due giorni fa. Ma in molte regioni si è deciso, autonomamente, di tenere ancora chiuse quelle superiori e di proseguire con la didattica a distanza. Il Cts, secondo il verbale riportato da diversi organi di stampa, motiva la sua posizione sottolineando “il grave impatto che l’assenza di esso (il ritorno in classe, ndr) ha sull’apprendimento e la strutturazione psicologica e di personalità degli studenti che, in questa particolare fascia d’età, possono essere fortemente penalizzati dall’isolamento domiciliare“. L’ultima parola è lasciata ad ogni presidente di Regione, che può a sua volta essere smentito dal TAR, come il Lombardia dove il movimento “A Scuola” ha vinto il ricorso contro la proroga della didattica a distanza.
Tante informazioni, tutte confuse e contraddittorie. E un’amara certezza di fondo: questo non è un Paese per giovani. Forse perché in Italia più di un cittadino su due ha almeno 45 anni (53,5%) o perché per ogni bambino ci sono cinque anziani, nessuno ha pensato a loro durante la pandemia. Non sono un gruppo influente, né a livello economico né sociale, e quindi sono stati “sacrificati” per primi e più a lungo. Interminabili giornate di didattica a distanza davanti a un PC – che solo uno su cinque (22,2%) può usare in via esclusiva all’interno della famiglia – e dentro una camera che – se hanno la fortuna di averne una – è diventata un po’ come la caverna di Platone.
Eppure, nonostante tutto, nelle ultime due settimane i ragazzi ci hanno stupito.
In molti hanno saputo vincere la “sindrome del prigioniero” e hanno riscoperto il piacere di confrontarsi guardandosi negli occhi – si può fare anche con la mascherina! -, di scambiare opinioni che non siano mediate (solo) da una chat e condividere interessi che non siano online.
Complici genitori preoccupati, ma anche professori innamorati del proprio lavoro, i ragazzi sono scesi in piazza al loro fianco in tutta Italia. E in alcune città hanno occupato alcuni licei, dormendo al freddo nel cortile e in numero contingentato per rispettare le disposizioni anti- pandemia, raccogliendo fondi per fare i tamponi rapidi prima di occupare.
I ragazzi ci hanno stupito perché molti di loro dopo mesi di apatia sono tornati ad essere combattivi, idealisti, pieni di progetti e speranze, come dovrebbero essere alla loro età. Sono stufi, ma sono anche determinati a non arrendersi. E chiedono anche a noi di guardare al futuro e di saper essere coraggiosi, e coerenti.
Coraggiosi perché “rischio zero” nella vita non esiste per niente. Nessuno nega che il momento sia critico e che richieda sacrifici, ma i nostri ragazzi ci stanno chiedendo di rimetterli – loro, il loro futuro – in cima alla lista. A chi obietta che aprendo le scuole si mette a rischio la salute dei propri figli, vorrei dire che forse la stiamo mettendo a rischio adesso, che li teniamo chiusi in casa da mesi con la didattica a distanza. Coraggiosi come loro, come la delegazione di 5 ragazzi del Liceo Vittorio Veneto che a Milano è andata dal sindaco Sala per un confronto sulle priorità che dovrebbe avere la scuola, denunciando gli errori passati e proponendo nuove soluzioni.
Coerenti perché il nostro compito non è di farli crescere sotto una campana di vetro ma di insegnargli a definire priorità e in base a quelle valutare rischi e ponderare scelte. Partendo dal nostro esempio. Io questo rischio, di mandarli a scuola, sono pronta a correrlo per loro e lo preferisco di molto a quello altrettanto alto di frequentare le baite aperte in montagna o i negozi pieni fino a sabato per i saldi di stagione. Si tratta di capire cosa è davvero importante e di comportarsi poi coerentemente. Qualche politico lo ha fatto e in Toscana, per esempio, le scuole superiori hanno riaperto con un patto di corresponsabilità tra insegnanti, genitori ed alunni. E’ un rischio, ed è un’eccezione nel nostro Paese saperlo assumere. Oltralpe in Svizzera lockdown totale, ma scuole aperte: è una scelta di priorità.
Ha purtroppo ragione Alessandro Rosina, professore di demografia e statistica sociale, che già nel 2009 aveva denunciato che “i giovani hanno scarso peso e poca voce” e che quindi questo non è un Paese per loro. Io da mamma mi batto perché lo sia. E nel mio piccolo provo a dare voce anche al disagio di tanti ragazzi che in piazza non sono scesi, perché ormai sono “spenti”, perché da noi hanno preso l’esempio peggiore, quello della disincantata rassegnazione e della mancanza di senso civico. Mentre si moltiplicano gli studi sui danni della dad in termini di carenze di apprendimento , sottovalutiamo ancora che la distanza dalla scuola sta già avendo effetti ben più gravi di tipo psico-fisico . E che i cittadini di domani si stanno formando sulle scelte confuse e incoerenti che stiamo facendo oggi.