Scuola, guardiamoci negli occhi per tornare in aula con speranza

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Il 7 Gennaio i ragazzi delle superiori ritorneranno a scuola. O meglio: torneranno in aula. Con orari diversi, con i turni, con modalità differenti da una Regione all’altra. Da insegnante, ho la speranza che quest04o primo giorno di scuola sia una ripartenza con tutto l’entusiasmo che i nostri alunni si meritano. Questi mesi di distanza hanno – a mio avviso – viziato la relazione tra insegnanti e alunni. Nei casi peggiori, la relazione è proprio scomparsa e la distanza si è fatta difficile da colmare, da dietro allo schermo, tra la complessa didattica digitale integrata e da un virus che ha riempito tutti di ulteriori preoccupazioni.

Tra schermi che dividono e relazioni ‘sfilacciate’
Troppo facile, però, nascondersi dietro la didattica a distanza, le sue evidenti inefficienze o le fatiche. La tecnologia, in questo strano tempo sospeso, ci ha permesso di mantenere un filo laddove la pandemia ci imponeva la distanza. Se anche qualche sfilacciamento c’è, allora è il momento di ricucire, ripartendo proprio dalla relazione, che è mancata tanto agli alunni quanto agli insegnanti. “La scuola è relazione – ci dice Valentina, docente di lingua inglese in un liceo della provincia di Varese – relazione con i compagni, con i docenti, con gli educatori. È il rispetto delle regole, la condivisione e la convivenza. Quello che mi manca di più è il notare l’espressione confusa dello studente più timido che non ha il coraggio di chiedere di spiegare nuovamente qualcosa, è l’entusiasmo dell’alunna che. dopo qualche difficoltà, riesce. È costruire insieme il lavoro in classe, esprimere le proprie opinioni. Tutto questo è molto, moltissimo. E mi manca”.

Se insegnare diventa un tiro alla fune, è il momento di cambiare rotta
Cosa è accaduto alla relazione in questi mesi? Certo, mediata dallo schermo. Certo, sfilacciata dal virus e dalla pandemia. Non è tutto, però: è come se quella tra studenti e insegnanti sia diventata una sorta di tiro alla fune, più che una collaborazione verso un obiettivo. Abbiamo visto insegnanti che chiedevano doppi ausili elettronici (come se averne a disposizione uno non fosse già complesso) durante le verifiche, che facevano tenere le mani a vista, persino bende sugli occhi o che comunque a priori palesavano un’insana assenza fiducia. Dall’altra parte dello schermo, studenti che cercavano di dimostrare la propria credibilità, altri che si approfittavano dei suggerimenti e che nella materia ‘copiatura’ avrebbero ricevuto anche la lode. Quel che è accaduto, a guardar bene, è che lo schermo ha acuito l’assenza di relazione, laddove la relazione non c’era o era sofferente. E certo, l’ha anche sfilacciata, se c’era. Invece di camminare nella stessa direzione, ognuno lottava per il suo scopo: gli insegnanti per avere delle valutazioni credibili da presentare, gli alunni per il voto. Interrogare, da una parte, avere un voto, dall’altra. La relazione si fermava allo schermo e rimbalzava indietro.

“Il 22 dicembre è l’ultimo giorno di scuola, siamo l’unico liceo che non fa la lectio brevis – si lamenta Chiara, 15 anni, che studia in provincia di Milano – Non capisco perché gli insegnanti almeno l’ultimo giorno di scuola non abbiano voglia di fare due chiacchiere, alleggerire la tensione ed evitare di spiegare fino alla sesta ora”. Letta solo con gli occhi severi dell’adulto, sembra la classica voglia di saltare la lezione. Di fatto, però, esprime anche una richiesta di relazione. Forse, in questi strani e difficili mesi, gli studenti sono rimasti uguali, nella loro solitudine hanno fatto quello che riesce loro meglio: gli adolescenti. Magari hanno anche approfittato del loro essere adolescenti. Nel giudicarli, noi insegnanti, presi dalla frustrazione e dal tiro alla fine, abbiamo dimenticato che gli adulti siamo noi. Che la responsabilità di non tirarla, quella fune, è in primo luogo la nostra. E che, invece, provare a tirarla, per capire fino a dove si può osare, dove c’è il limite e il confine, quella è cosa da adolescenti.

Dove la troviamo, la speranza?
Jon Kabat-Zinn, medico statunitense tra i principali divulgatori della mindfullness, scrive che “comunicare è avere un incontro o un’unione di menti. Questo non significa necessariamente essere d’accordo. Significa vedere la situazione nella sua globalità e comprendere il punto di vista dell’altro insieme al proprio, nella misura in cui siamo capaci di questa apertura di cuore e presenza. Quando siamo totalmente assorbiti dalle nostre emozioni e attaccati a nostri scopi, senza esserne consapevoli, una genuina comunicazione è impossibile”. Per gli insegnanti non è stato facile non farsi assorbire dalle proprie emozioni, accecare dai propri obiettivi, dall’ansia di mettere dei voti, di procedere con un programma messo a durissima prova dalle incertezze, dagli schermi, dalla distanza, da un metodo da reinventare, da “Google down” veri o architettati ad arte? Per il 7 gennaio, allora, ripartiamo da qui, guardando i ragazzi con gli occhi della speranza.

“La speranza non è per nulla uguale all’ottimismo. Non è la convinzione che una cosa andrà a finire bene, ma la certezza che quella cosa ha un senso indipendentemente da come andrà a finire”. (V. Havel)

  • Rossella Grilli |

    Sono interessata a questi argomenti.

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