Violenza sulle donne, cosa serve davvero in Sicilia oltre alla cabina di regia?

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La Regione Sicilia ha istituito una Cabina di regia per il contrasto alla violenza di genere. Un altro organo collegiale che si aggiunge al Forum permanente contro le molestie e la violenza di genere che nell’isola c’è già dal 2012. Il Forum, pensato come sede di dialogo e di confronto, da allora si è riunito poco meno di 5 volte. A cercarlo sul sito della Regione, del lavoro svolto in otto anni non vi è pressoché alcuna traccia. Non diversamente deve dirsi dell’Osservatorio, istituito nel 2014 e del quale non ci sono riferimenti né report, a oggi, disponibili. Alley ha anche provato a contattare i referenti, per chiedere un confronto sui dati, senza però ottenere alcun riscontro.

La legge di istituzione del nuovo organismo è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 10 luglio scorso, l’iniziativa parlamentare è del Movimento 5 Stelle, prima firmataria la consigliera Valentina Zafarana. Le ambizioni che sembrano aver animato il legislatore dell’isola lascerebbero pensare a un intervento importante, alla ricerca di un coordinamento di azioni e misure, incluse quelle di solidarietà per gli orfani dei crimini domestici. Tuttavia, viste le esperienze precedenti, bisognerebbe tentare di capire – superando gli annunci ufficiali e i buoni propositi – quali saranno i reali spazi di manovra della neonata cabina di regia che ha alla presidenza l’assessore regionale per la famiglia, politiche sociali e lavoro, e che conta tra i suoi componenti anche gli assessori alla salute e all’istruzione, nonché i rappresentanti dei prefetti, il comandante dei carabinieri e un rappresentante per magistratura, Anci, Asael, Forum, oltre alla consigliera di parità.

Un primo elemento che salta all’occhio è la totale assenza di chi, con le donne vittime di violenza, lavora quotidianamente sul territorio. Carmen Currò è fra le fondatrici di CEDAV, il primo centro antiviolenza della Regione, nato a Messina nel 1988 da UDI e AGI. “La cabina di regia è, a mio avviso, carente ed è carente nel senso che non ci sono proprio le associazioni”, dice subito dopo l’approvazione della legge. Una mancanza che appare grave, in seno a un organismo che nasce con la funzione precipua del coordinamento. “Sono assenti i centri antiviolenza – continua l’avvocata Currò – che di fatto si occupano con specificità del problema e lavorano da anni sul tema. Da quando abbiamo iniziato tanta acqua sotto i ponti è passata. Prima non c’erano leggi che tutelassero le donne, fino al 1996 la violenza sessuale era un reato contro la morale. Il Cedav si è dato l’obbiettivo di aprire una grande campagna culturale nel territorio, coinvolgendo le scuole, le istituzioni e le forze dell’ordine. In Sicilia siamo stati il primo centro, l’anno dopo a Palermo nascevano Le Onde”. L’avvocata ce lo dice chiaramente che, se non si ascoltano le operatrici, difficilmente una legge sarà una buona legge.

In questo provvedimento ci sono anche i bambini. Agli orfani di femminicidio è  infatti dedicato l’art. 2. Si ribadiscono misure di sostegno, annunciate da molto e attese da troppo tempo. Carmen Currò sull’argomento è lapidaria: “Quello di questi figli è un trauma che mai potranno superare completamente, potranno solo provare ad elaborarlo con l’aiuto delle necessarie professionalità. I minori vittime di femminicidio devono dunque trovare una solida soluzione ai loro problemi. La legge nazionale deve essere adeguatamente supportata da interventi economici e sociali di lunga gittata”. E in effetti una legge dello Stato esiste e dal 2018 prevede un aiuto economico. “Il problema è che in Sicilia quei soldi non si vedono. Alle famiglie delle vittime, aiuti non ne sono ancora mai arrivati”.

A parlarci della difficoltà che si aggiunge al dolore è Vera Squatrito, presidente di Io sono Giordana, associazione di volontariato che porta il nome della figlia uccisa dal fidanzato ad appena vent’anni, nel catanese, nell’ottobre del 2015. Vera cresce la nipote che aveva appena 4 anni quando le è stata strappata la mamma e sa bene che l’impegno per i bambini rimasti orfani è immenso e che grava, tutto e per intero, sulle famiglie. “Raccolgo da tempo le richieste di tanti parenti. Per le esigenze concrete dei figli, dalla necessità di un sostegno psicologico, alle spese sanitarie, a quelle scolastiche, i familiari sono lasciati soli. C’è da poco un regolamento che avevamo atteso ma che rende tutto più difficile”.

Vera si riferisce al decreto del Ministero delle Finanze di maggio di quest’anno, appena entrato in vigore, che stabilisce come la domanda per avere accesso al fondo per le spese mediche e assistenziali debba essere proposta dal tutore, ovvero dall’ente di assistenza nominato dal giudice tutelare ovvero dal genitore esercente la responsabilità che non sia ancora stato dichiarato decaduto: “Pensiamo al caso di una vittima di femmincidio, è normale che le famiglie debbano chiedere all’uomo che ha ucciso quella mamma – magari non ancora condannato in via definitiva, né dichiarato decaduto dalla responsabilità – che firmi la domanda per accedere a quei soldi? Ancora, altrettanto incomprensibile è per noi che ci siano concessi rimborsi su spese documentate – a ristoro degli esborsi, dice la legge – dietro fattura e sempre che vi sia la capienza. Parliamo di cifre ridicole, poi, quando gli orfani sono appena maggiorenni”. Mentre si attende il decreto della Regione (annunciato con la nuova legge e che stabilirà termini e modalità di erogazione delle somme nell’isola), il provvedimento nazionale sul quale quello andrà ad innestarsi pare piuttosto inadeguato.

Vera, che della nipote è da anni tutrice, aggiunge un altro elemento: “Bisogna considerare che per la maggior parte delle famiglie completare l’iter delle procedure di affidamento non è un percorso breve”. Il fattore tempo nel nostro Paese è sempre, dunque, centralissimo. “Contestiamo anche i numeri – continua, riferendosi agli stanziamenti che sono vincolati alle risorse statali – I fondi previsti sono calcolati su qualche migliaio di orfani, mentre i bambini sono certamente molti di più. Abbiamo chiesto su quali basi avessero tratto quelle cifre e lo abbiamo fatto per il tramite delle associazioni che supportano i parenti delle vittime – tra queste ci è vicina Il giardino segreto – ma non abbiamo avuto nessuna riposta”.

Non è tutto come in Sicilia, però. C’è ad esempio la Regione Lazio che, mentre si avvia ad approvare una legge che inserirà gli orfani tra quelli con priorità all’accesso ai servizi educativi a offerta pubblica, è stata tra le prime a dotarsi di uno strumento che garantisce loro un sostegno. Già dal novembre del 2018, non sono molti soldi, ma ci sono. Si tratta del contributo continuativo dato agli orfani di femminicidio fino al raggiungimento del ventinovesimo anno d’età; parliamo di 10.000 euro l’anno per il primo anno e della metà, per gli anni successivi.

Il contrasto alla violenza di genere è insomma una guerra che non può vincersi senza provvedimenti che non siano economicamente efficaci, lo dicono le vittime e lo dicono le operatrici. Servono fondi per la prevenzione e per la protezione delle donne ma ne servono soprattutto per dar loro un’autonomia reddituale che non hanno. E si sa che l’indipendenza  economica passa inevitabilmente per le opportunità di lavoro.

La legge appena promulgata in Sicilia batte anche su questo altro tasto dolente e dispone all’art. 3 che la Regione “sostiene le vittime anche mediante apposite riserve di fondi destinate alle politiche attive del lavoro”. Cosa aspettarsi, su questo terreno? “Le donne che si rivolgono ai centri, di solito, non hanno un reddito ed è per loro più difficile rompere la spirale della violenza, magari denunciare o solo separarsi – chiarisce l’avvocata Currò – Ci sono le borse lavoro, è vero, e sono una recente realtà delle politiche regionali e anche comunali, ma queste non possono essere soluzioni ai problemi occupazionali di lungo termine. Affrontano solo momentaneamente il problema e non danno prospettive stabili”.

Rispetto alle prescrizioni della Convenzione di Istanbul, in definitiva, è chiaro quanto  l’Italia resti indietro e alcune Regioni più di altre. “Il motivo è che il nostro Paese non è costante negli interventi – ci spiega l’avvocata – E, così, ad esempio i Piani Nazionali Antiviolenza stentano a diventare veri strumenti d’intervento, con finanziamenti adeguati, iniziative di controllo e di coordinamento tra le Regioni”.

La fotografia a livello nazionale, con numeri e dati aggiornati, ce la consegna la Commissione d’inchiesta incardinata al Senato che ha appena pubblicato una Relazione sulla governance dei servizi antiviolenza e sui finanziamenti. 366 centri antiviolenza che garantiscono un totale di 647 punti di accesso, risorse umane e professionali che sono definite “il cuore e il perno del sistema”. Le donne che quei centri li hanno contattati almeno una volta sono poco meno di 50 mila; oltre 32 mila invece quelle che poi hanno iniziato un percorso di fuoriuscita dalla violenza domestica. Quasi 4500 le persone prese in carico dalle case rifugio, strutture a indirizzo segreto che assicurano un alloggio. Sono l’ultimo riparo per le donne costrette a lasciare la propria abitazione a causa dell’altissimo rischio di venire ammazzate e di aggiungersi ai femminicidi che nell’anno in corso sono già 39, di cui 24 dal lockdown a oggi. Quasi la metà delle vittime rifugiate, va detto, sono madri con minori al seguito. In Sicilia, la situazione è di “21 centri antiviolenza, 31 sportelli di ascolto, 37 strutture di accoglienza ad indirizzo segreto che diventeranno presto 52”, a sentire l’assessore Scavone.

Il momento è particolare. C’è la pandemia in corso che ha avuto una ricaduta sul fenomeno che la stessa Commissione d’inchiesta descrive in maniera netta. Malgrado il calo delle denunce e in un primo momento anche degli accessi ai centri – specie nelle primissime settimane di chiusura – la violenza contro le donne non è in regressione. Al contrario – dice la relazione – questi dati “sono invece il segnale di una situazione nella quale le donne rischiano di trovarsi ancora più esposte alla possibilità di controllo e all’aggressività del partner maltrattante”. L’effetto Covid ha prodotto conseguenze che la direzione centrale della polizia criminale ha reso note in un Report sull’andamento dei delitti riconducibili alla violenza di genere, nel periodo compreso tra gennaio e maggio 2020. Ne viene fuori che, a fronte di una flessione accertata nei mesi di marzo e aprile rispetto allo stesso range del 2019, si è giunti presto – nel mese di maggio – a dover registrare un incremento addirittura ulteriore. Dati importanti che la relazione parlamentare ribadisce essere in costante crescita, un trend che le associazioni in audizione confermano e interpretano anche come indice di un’accresciuta fiducia, delle donne nei confronti dei servizi specializzati. Interessante sarebbe anche che si approfondissero le capacità di spesa delle risorse nazionali da parte delle Regioni, partendo dai dati che le stesse hanno fornito alla Commissione. Somme che risultano, a oggi, ancora insufficienti.

Il tutto mentre le donne continuano a morire. Tre femminicidi in un solo giorno, in questa metà del mese di luglio, a Torino, a Latina e a Parma, ci dicono che questo è un massacro che non si ferma e che pretende sforzi tangibili costruiti su contenuti precisi e puntuali.