Sono un uomo fortunato, per una serie di motivi. Il primo è che mi sono ammalato quando l’epidemia non era ancora così diffusa, sono stato ricoverato in ospedale tempestivamente e in un ospedale di grande professionalità come il Sacco di Milano. Qui ho ricevuto delle cure molto appropriate e ce l’ho fatta.
Sono un uomo fortunato anche perché, nella disgrazia di aver contratto il coronavirus, insieme a me c’era mia moglie Adriana. Anche lei è presidente di una sezione Civile del Tribunale, abbiamo contratto il virus insieme, quasi certamente in Tribunale, non sappiamo chi dei due per primo. Abbiamo passato tre settimane in ospedale. in isolamento ma per fortuna insieme. Le poche visite che abbiamo voluto delle nostre figlie sono avvenute attraverso un vetro.
Sono un uomo fortunato perché è andato tutto bene. Non ho ancora trovato un equilibrio dopo questa esperienza, un equilibrio che mi consenta di capire, metabolizzare e superare la paura, l’angoscia, il timore di vedere il burrone della respirazione artificiale e quindi della terapia intensiva che molte volte mi ha sfiorato. Un equilibrio che mi permetta di coniugare la sofferenza personale e la fortuna che ho avuto, e anche di comprendere il contesto in cui questo dramma si sta realizzando. Ci stiamo quasi abituando a sentire che ci sono centinaia di morti ogni giorno, questo e tutto ciò che stiamo vivendo ci cambierà.
In un contesto reso drammatico anche dai molti errori fatti, a partire dagli errori di comunicazione. Ricordo che qualcuno, all’inizio della pandemia, diceva che questa era sostanzialmente un’influenza e non bisognava essere allarmisti. L’obiettivo, però, non era di allarmare, terrorizzare era però quello di responsabilizzare.Tra gli altri errori che ho toccato con mano, quello di non mettere in sicurezza luoghi come il Palazzo di Giustizia di Milano, dove transitano migliaia di persone al giorno, provocando il contagio di magistrati, personale amministrativo, avvocati e non sappiamo quante altre persone. La mancanza di tamponi a chi era entrato in contatto con i malati è stato ancora un altro errore, gravissimo. Le persone che fino a 3 giorni prima lavoravano con me e con mia moglie sono stati messi in quarantena a casa, senza accertamenti clinici di nessun tipo. Una lunga catena di errori, che si è propagata a macchia d’olio, mettendo a rischio troppe vite.
Dal punto di vista clinico, quello che ho capito è che quando si prende il coronavirus, quando il virus attacca i polmoni, devono convergere – tutti insieme – una serie di fattori positivi per poter superare la crisi. Sono un uomo fortunato perché ho incontrato medici, infermieri, tutto il personale sanitario che mi ha seguito e che ci ha seguito con grandissima professionalità, grande capacità clinica e diagnostica e di trovare la terapia più efficace. A partire dal prof. Giuliano Rizzardini, che è il direttore del Dipartimento di malattie infettive del Sacco, che non smetterò di ringraziare per il suo lavoro. E non è solo la capacità medica ad essere stata straordinaria, ma anche la pazienza di rispondere a tutte le mie 100 domande quotidiane, la capacità di di rassicurare e sostenere nei momenti peggiori, quando mi sembrava di precipitare in luoghi bui, con vera empatia, anche quando alle domande non c’era risposta. E’ stata fondamentale l’attenzione di medici e infermieri agli aspetti psicologici, per superare l’ansia, la paura di non riuscire a respirare che può portare a veri e propri attacchi di panico, che accompagnano questa malattia.
Sono un uomo fortunato perché adesso sto bene. Ho perso molto tono muscolare, 7 chili, devo recuperare i livelli di saturazione, ma sto bene. Sono cambiato, questa esperienza mi ha cambiato. So che c’è bisogno di fare di più per gli altri, da tutti i punti di vista, ho bisogno di continuare a fare una giurisdizione mite, di comprensione, di aiuto dei soggetti più deboli. Ho bisogno di fare di più anche al di fuori dell’attività di magistrato.
Racconto questa esperienza perché è un’esperienza a lieto fine, è un’esperienza che segna, è un’esperienza che fa comprendere molte cose. Certo, devo ancora mettere a posto alcune cose, come la dipendenza dal termometro e dal saturimetro, con l’incubo di avere ancora quella fame d’ossigeno che è la cifra di questa pesante malattia.
Racconto questa storia perché comunque è una storia positiva, perché ce l’ho fatta, ce l’abbiamo fatta. E’ una storia di vicinanza, di affetto, perché sono certo che se non ci fosse stata mia moglie che mi ha sorretto e mi ha aiutato, anche a pregare, probabilmente sarei crollato dal punto di vista psicologico. L’abbiamo ribattezzata la nostra luna di miele al Sacco, perché quest’anno sono 25 anni che siamo spostati. E’ una storia di ringraziamento per l’eccellenza dell’assistenza che ho ricevuto all’ospedale Sacco di Milano. E per aver ritrovato la voglia di lottare.