Restate a casa. Questo è un monito che in questo momento di massima emergenza abbiamo tutti ben presente. Restare a casa è l’unico strumento che abbiamo per metterci al sicuro da un nemico invisibile, ma potente, il coronavirus, un pericolo che è lì fuori e che dobbiamo quindi evitare. L’invito a “restare a casa”, però, non evoca in tutti sensazioni di sicurezza e protezione perché, non per tutti, le mura domestiche rappresentano un luogo sicuro. Sicuramente non per le donne che proprio in casa loro subiscono insulti, violenze fisiche, maltrattamenti. Per queste donne questo semplice hashtag rischia di diventare una condanna.
La quarantena espone queste donne a un virus altrettanto pericoloso: quello della violenza maschile, la violenza del proprio partner, che toglie loro l’aria, soffoca la loro individualità, e ne ferisce il corpo e la psiche giungendo talvolta a causarne la morte. Così, le donne vittime di violenza domestica, in questo momento, si trovano tra due fuochi: il contagio da Covid-19, fuori casa, e la violenza maschile, in casa loro.
Quando lavoravo nei centri antiviolenza di Roma, prima, e presso il SVSeD della Mangiagalli di Milano, poi, sapevo che i momenti più intensi di lavoro, quelli in cui il telefono della reperibilità avrebbe squillato maggiormente preannunciando storie di sofferenza, dolore, pericolo e paura, sarebbero stati i week-end e i periodi di vacanze, proprio quei momenti in cui le famiglie si riuniscono e passano più tempo insieme. Nel caso delle donne maltrattate quel maggior tempo a disposizione, a contatto con i propri cari, o meglio a contatto con “lui”, il loro partner violento, era ed è un tempo che si trasforma in un incubo senza fine.
Questa prossimità rischia di determinare un’escalation degli episodi di violenza non solo nei termini della loro frequenza, ma anche della loro intensità e gravità. Eppure, nonostante questo si va incontro al rischio di un aumento del sommerso, al rischio di una maggiore difficoltà all’emersione e all’evidenza del fenomeno che è da ricondursi proprio al fatto che, la costante vicinanza con il proprio aggressore, sottopone le donne ad un continuo controllo che ne limita le azioni e quindi anche la possibilità di chiedere aiuto. Le donne in genere contattano o si recano presso i centri antiviolenza quando hanno la possibilità di allontanarsi momentaneamente dal partner violento (quando escono di casa per andare a lavorare, fare la spesa o accompagnare i bambini a scuola, o quando è lui ad uscire), ma il coronavirus sta togliendo, a queste donne, una simile opportunità: sta riducendo i contatti con l’esterno e la possibilità di far sentire la loro voce. Le donne hanno paura di essere scoperte mentre chiamano per chiedere aiuto, hanno paura che questo possa aumentare la ferocia e la violenza del loro partner e quindi spesso le operatrici dei centri antiviolenza ricevono telefonate che vengono interrotte bruscamente o che sono effettuate con una voce sussurrata, sommessa, quasi inudibile.
Inoltre è importante sottolineare come l’isolamento a cui le donne maltrattate sono sottoposte, come tutti noi dai decreti ministeriali, è si insito nella quarantena, ma va ad esasperare e rinforzare quell’isolamento che l’uomo mette in atto, in maniera sistematica e predeterminata, all’interno di una relazione maltrattante al fine di rendere sola, debole e quindi sottomessa la sua partner.
La rete antiviolenza però anche in questo momento è sempre attiva ed è quindi importante far arrivare a queste donne un importante messaggio: non siete sole, non ci siamo dimenticate di voi. Non esitate a chiamare e a chiedere aiuto. I Centri antiviolenza (individuabili su tutto il territorio nazionale tramite il Numero Antiviolenza e Stalking 1522) continuano ad esserci perché consapevoli che il coronavirus, purtroppo sta fermando tutto, sta fermando un’intera nazione, ma non la violenza, quella no, quella non è riuscito a fermarla, ed allora la rete antiviolenza continua ad essere lì, per voi perché insieme si possa continuare ad andare avanti nel percorso di uscita dalla violenza.