Fermiamoci. No, ripartiamo. Sul coronavirus e sugli effetti delle misure di contenimento si è scatenato un tifo da stadio. La polarizzazione delle posizioni è stata immediata, netta, da subito. Il pensiero, al tempo dei social, pare funzionare solo così: bianco o nero, giusto o sbagliato, vax o no vax… E allora, da subito, da un lato si sono schierati, mascherina in una mano, Amuchina nell’altra, i templari della pandemia. Visioni apocalittiche, supermercati presi d’assalto, città deserte, sono lo scenario che ne è seguito. La psicosi, con tanto di anamnesi e diagnosi di acuti osservatori ed esperti sull’incapacità delle persone di affrontare le proprie paure.
Dall’altra parte del campo, non si è fatta attendere la reazione dei minimalisti: la ragione prima di tutto, dicono, mentre scelgono accuratamente le informazioni da considerare e quelle da escludere per sostenere il loro inoppugnabile ragionamento. In psicologia del ragionamento si chiama Bias cognitivo, un costrutto fondato su percezioni errate o deformate, al di fuori del pensiero critico. Quindi, per i minimalisti, il virus è poco più di un’influenza e come tale va trattata, punto. Il resto è esagerazione.
Queste sono le due polarità di pensiero che governano non solo i commenti sui social ma anche le posizioni dei rappresentati di Governo che in questo momento hanno la responsabilità più grande, quella della salute pubblica e della pace sociale. E, purtroppo, anche di certi medici, che in alcuni casi con troppa decisione e forse troppa fretta si sono schierati su un fronte o sull’altro.
Resta sepolta in interventi rari, sporadici, illuminati, lunghi – e quindi mai letti o ascoltati fino alla fine – quello che dovrebbe essere il maggiore traguardo della società civile, ovvero la capacità di pensiero critico, la complessità. Non siamo disposti ad accettarla, non abbiamo tempo di prenderla in considerazione, semplifichiamo e andiamo avanti. Non cerchiamo la verità, cerchiamo conferme alle nostre sensazioni o ai nostri pregiudizi che traduciamo in verità assolute.
Karl Popper diceva che per avvicinarci alla verità possiamo sì partire da un’intuizione, da un’osservazione, ma poi dobbiamo procedere per falsificazioni. Dobbiamo cercare di invalidare quella nostra argomentazione, pur di rafforzarla, solo così possiamo approssimarci idealmente alla verità oggettiva, pur non potendo mai raggiungerla completamente.
Perché ci risulta così difficile mettere in dubbio le nostre certezze? Sono così rigide da non sopportare il colpo del dubbio? Da uscirne incrinate, rotte, infrante? Dov’è la zona di grigia complessità del pensiero necessaria all’evoluzione, al cambiamento e al progresso?
L’emergenza che stiamo affrontando ha aperto una crepa profonda nel nostro mondo perfettamente organizzato e funzionante. Una crepa che sta mostrando non solo la fragilità della globalizzazione, per come l’abbiamo intesa e vissuta finora. Ma anche la nostra incapacità di lasciare il noto verso l’ignoto, di aprirci mentalmente alla possibilità che qualcosa possa cambiare non secondo la nostra volontà. Che possano esserci eventi inattesi e non programmati che hanno conseguenze non previste e non prevedibili. Non necessariamente catastrofiche, non necessariamente indifferenti.