Per i nazisti erano semplicemente stücke, pezzi. Nei campi di sterminio non c’era distinzione fra uomini, donne, bambini, anziani. Solo, brutalmente stücke. Per le donne, forse, la vita nei lager era ancora più grama, se distinzioni si possono fare nell’inferno.
Giorni stipate nei vagoni della morte, poi, all’arrivo, subito divise dai propri figli e figlie, dai mariti. Il freddo, la privazione dell’identità. Le parole di Liliana Segre, senatrice a vita e reduce dal campo di Auschwitz, sono una foto di dolore: «Avevo una consapevolezza nuova della mia nudità e del mio cranio rasato. La rasatura era stata crudele, la macchinetta passava duramente sulla povera testa quasi ormai pelata. I miei capelli neri lunghi, ricci, ribelli erano per terra e non avevo potuto tenere per me neanche il nastrino verde che li legava nella mia vita precedente. Non ero mai stata così sola e così infelice».
Solitudine acuita dal freddo, dalla sete, dalla fame, quella che faceva interrompere anche il ciclo mestruale a tutte. Pure questa un’ulteriore perdita di femminilità. Importante per archiviare un giorno dopo l’altro, era la voglia di vita, mettere un piede davanti all’altro. Magari trovando nelle altre donne conforto, una carezza, un po’ di calore.
Tante le donne raccontate dai sopravvissuti, tanti i libri che ci hanno restituito in questi anni le loro voci, i loro volti. Come quello di Janine, compagna di prigionia di Liliana Segre. Racconta la senatrice «con vergogna, di non essersi girata quando la sua compagna di lavoro, reduce da un incidente al telaio che le aveva amputato due falangi, era stata scartata dalla selezione e destinata tra coloro che erano destinati al gas. Ora parlo anche in nome di Janine, la mia compagnia di lavoro, che quel giorno mentre io davanti a lei venivo ancora giudicata abile al lavoro veniva scartata per le due falangi amputate. Quel viso che non sono riuscita a guardare per l’ultimo istante, non voltandomi indietro, ora lo porto a voi per ricordare nel suo nome quanto è accaduto».
Quei volti, sformati dal dolore, sono le Madonne lacrimose del nostro Novecento europeo. Sono un punto di non ritorno. Ne abbiamo riscoperta una, Lidia Rolfi, partigiana e staffetta della Brigata Garibaldi col nome di “maestrina Rossana”. A Mondovì, il 23 gennaio 2020, una mano anonima e codarda ha scritto sulla porta di quella che fu la sua casa “Juden hier” con tanto di stella di David. Lidia non era ebrea, ha lottato per la libertà nelle Valli del Cuneese. Ha rischiato la vita per tutti noi, la arrestarono e rinchiusero a Ravensbruck come prigioniera politica. In quel campo arrivarono 102mila donne, ne uscirono vive solo 10mila. Anche Lidia, che ha raccontato il suo lager nel volume Le donne di Ravensbruck.
Oggi, contro l’odio e la violenza, l’imperativo categorico è uno solo: ricordare perché, citando il Talmud “una persona viene dimenticata solo quando è dimenticato il suo nome”. Ci sono video da far vedere ai nostri ragazzi, ci sono libri da leggere insieme: fra i più recenti apparsi in Italia, “L’anima delle cose”, in cui la sopravvissuta ungherese Éva Fahidi, oggi 95enne, testimonia, rivive e spiega come sia prevalsa la vita in quel deserto umano. Ci sono le pietre d’inciampo (si veda la mappa sul sito del Sole 24 Ore) con migliaia di nomi di donne uccise dai nazisti davanti alle quali sostare e considerare – per dirla alla Primo Levi – se questa è una donna.