Ci sono domande che sono come sguardi indiscreti, che il buon senso e la cultura comune ci fanno evitare nelle conversazioni superficiali e maneggiare con cura in quelle personali. Una di queste, forse tra le più insidiose, è: “Sei felice?”. Insidiosa perché apparentemente banale, ma anche illusoriamente contigua alla ben più nota e inflazionata “Come stai?”.
Se decidessimo tutti, di comune accordo, per un’intera giornata di rimpiazzare “Come stai?” con “Sei felice?”, che effetto farebbe? Ci obbligherebbe forse a sostenere lo sguardo del nostro interlocutore qualche secondo in più del solito e ci farebbe tollerare una pausa più lunga prima della sua risposta. Ci aspetteremmo un pacifico “abbastanza” come quantificazione di un elemento che diamo per indefinito, perché sia un “si” che un “no” richiederebbero ulteriori approfondimenti, ed è raro che quando incroci qualcuno in corridoio tu (e lui) abbiate voglia e tempo per andare più a fondo.
“Definisci felice” risponderebbe un robot intelligente. E avrebbe ragione. Perché, stranamente, siamo tutti abbastanza d’accordo sulla definizione di tristezza – e sappiamo tendenzialmente riconoscere quando siamo tristi (anche se lo scrittore Felice Di Lernia nel suo “Eppure il vento soffia ancora” fa notare come spesso le donne pensino di essere tristi quando sono stanche e gli uomini pensino di essere stanchi quando sono tristi), mentre della felicità abbiamo definizioni varie e diverse, in continuo cambiamento.
Il tema sta diventando caro anche alle aziende che, con l’efficienza tipica di chi pensa per grandi numeri, hanno fatto del termine felicità la cornice comune di diversi altri obiettivi che stanno sistematicamente mancando, e chissà che raggruppandoli così non se ne risolvano almeno un po’. Cascano quindi nel calderone della felicità aziendale tutti quei fattori di difficile misurazione ma alto impatto come il benessere, l’employee experience, la cultura, la leadership (positiva)… insomma il macro insieme degli elementi più complessi dell’essere umano.
Ma come si fa a “staccare” la gestione della felicità da quella del resto? Obietta infatti l’autrice di un articolo di Forbes del 2019 sul tema degli Happiness manager:
“La vostra azienda ha un Chief Happiness Officer? No? Beh, e nemmeno dovrebbe averlo. Almeno non un manager dedicato. Per quello c’è già il vostro CEO/capo dipartimento/team leader. Non “anche” per quello, in aggiunta al loro “vero” ruolo di business: lo scopo letterale di un leader è proprio quello di controllare religiosamente e migliorare il livello di felicità delle proprie persone”.
Ma… e se la felicità diventa un problema acuto, come lo sono (per esempio) le pari opportunità in Italia? Possiamo rispondere come fece Matteo Renzi per spiegare che non aveva un ministero delle Pari opportunità nel suo governo perché la parità era organica nella rappresentanza femminile dei suoi ministeri? O la creazione di un dipartimento ad hoc è utile perché obbliga a riempire quel perimetro con elementi di senso, a cominciare dalle metriche?
Torniamo così alla domanda iniziale. Che cosa vuol dire essere felici? Il Buthan, Stato che per primo ha iniziato a parlare di Felicità Interna Lorda come metro di successo delle proprie scelte politiche, ha scelto quattro indicatori: la qualità dell’aria, la salute dei cittadini, l’istruzione, la ricchezza dei rapporti sociali. Nel Buthan, che si sappia, la felicità non corrisponde alla ricchezza economica: “secondo alcuni dati questo Paese è uno dei più poveri dell’Asia, con un PIL pro capite di 2.088 dollari (dato del 2010). Tuttavia, secondo un sondaggio, è anche la nazione più felice del continente e l’ottava del mondo”.
Sappiamo anche, per lo meno per sentito dire, che essere ricchi non rende felici. Insomma, ancora una volta siamo più pronti a definire la felicità per assenza che per sostanza: sappiamo che cosa non ci rende felici mentre esitiamo a definire quando e perché siamo felici.
La spiegazione possiamo cercarla in parte nell’origine stessa del termine “felice”: secondo l’Etimo italiano “l’etimologia della parola felice è da ricondursi alla radice sanscrita bhu- (poi trasformatasi in foe- o in fe- ) da cui il greco φύω (fyo) = produco, faccio essere, genero (da cui hanno origine i termini fecondo e feto)”. Scopriamo così che la felicità non nasce da un sostantivo ma da un verbo, da un “fare”, e in particolare da un’attività generatrice. Essere felici non è dunque uno stato, ma un movimento, e in quanto tale esiste se c’è una volontà che lo muove, una consapevolezza che lo riconosce e ne tiene traccia.
La domanda “sei felice?” potremmo allora farcela l’un l’altro più spesso anche solo per allenarci a riconoscere i nostri comportamenti di felicità, anche quelli già passati, e per esercitarci nel domandarci a nostra volta “come” siamo felici, senza però che questo diventi la ricerca frustrante di uno stato dell’essere che non potremo possedere mai interamente nè, tanto meno, definitivamente.