“Sono nata il ventuno a primavera ma non sapevo che nascere folle, aprire le zolle potesse scatenar tempesta”. Con i versi forse più noti di quella che è considerata la poetessa più amata del Novecento italiano si apre “Alda Merini, mia madre” in libreria dal 25 ottobre scorso.
Poco più di duecento pagine in cui Emanuela Carniti, primogenita delle sue quattro figlie, traccia a dieci anni dalla morte un ritratto dell’artista e della donna, per Manni Editori. E succede che la dimensione intima e quella pubblica di Alda Merini provano in questo libro, forse per la prima volta, a ricomporsi. Rivive come in penombra l’artista tutta intera. Lo fa travalicando quelle righe fino a riportare il lettore ora sui Navigli, ora in Puglia, ora nell’inferno dei ricoveri in manicomio che hanno puntellato l’esistenza di Alda.
Il ritmo sembra attingere direttamente dal fluire dei ricordi. E così ci si può ritrovare come a perdersi, per un momento, tra quelle pagine, quasi a rovistare in un passato che proviamo a figurarci, mentre a tratti la narrazione s’interrompe davanti alle fotografie di famiglia che impreziosiscono il volume.
La poetessa è moglie, madre, è un’intellettuale amata e rispettata; ma è anche una donna fragile, spesso fragilissima, inquieta, malata, sempre però di una spontaneità e di una generosità autentiche. Una donna senza filtri che è anche un’artista immensa e infinitamente sfaccettata.
Il ricordo ce la restituisce mentre al bar Chimera, seduta al solito tavolino, con la sua macchina da scrivere “batteva qualche verso direttamente sulla carta carbone per non dover comprare il nastro inchiostrato, e vendeva le sue poesie a mille lire l’una”.
Questa immagine è potente e ci riporta a “La bolgia delle eretiche” (A&B Editrice), testo di Marinella Fiume uscito nell’inverno del 2017. La scrittrice e intellettuale siciliana prende in prestito la figura di Alda che abita notte e giorno quel salotto di velluto rosso, e ne fa una musa. Lì la poetessa è un faro, la guida che, nell’aldilà, dà voce allo spirito delle donne che nei secoli avevano rivendicato autonomia e autodeterminazione.
C’è poi, nel lavoro di Emanuela, la scrittura che guarisce. Sono di nuovo i versi di Alda a fluire, ancora liberi a riempire i vuoti, a lasciar scorrere la vita, proprio come facevano sulle pagine dei suoi libretti e sulle pareti della sua casa di Milano. Oggi quello che è chiamato “il Muro degli angeli”, salvato dal trasloco, si trova finalmente collocato nello Spazio Alda Merini, in via Magolfa 32.
Le pagine di questo libro hanno insomma la pretesa di raccontare un’esistenza e ne chiariscono i tratti più autentici. Con tono imperativo dicono al mondo che non era la follia a rappresentare l’origine dell’ispirazione poetica di Alda, ma che quella, invece, la trascendeva sublimandola.
La storia della poetessa incrocia il vissuto di tante donne e di tanti uomini alle prese con la malattia mentale, nell’Italia del secolo scorso. “Dopo il primo ricovero mamma non fu più la stessa, forse per gli elettroshock, forse per l’esperienza terribile che aveva vissuto al Paolo Pini, ma è come se si fosse definitivamente spezzato qualcosa”. Il dolore si fa esperimento e in Alda diventa esso stesso denuncia sociale. Il recupero dei suoi molti scritti ricuce gli strappi: “Cos’è per me il disagio psichico? Mi spiego con un esempio: io sono afflitta da una sorta di timidezza congenita già da quando ero una bambina, sono un essere un po’ selvatico, che è diventato aggressivo per difendersi dagli attacchi degli altri: non so se questo vuol dire diversità. Il mio isolamento è prettamente poetico, mi piace star sola. Per l’emarginazione è una cosa diversa”. E purtuttavia Alda dice di conoscerla, l’emarginazione istituzionale. La descrive con parole di fuoco “un decesso vero e proprio a livello giuridico. Uno finisce di abitare nel campo sociale, viene desocializzato, non gli si danno più libri, né possibilità di scrivere (…) Io non avrei mai rinchiuso un parente in manicomio, né l’avrei picchiato, né l’avrei punito. C’è un codice d’onore nei manicomi, c’è una mafia ospedaliera, una non dirittura morale”. Un attacco, forte e diretto, è quello della poetessa dei Navigli, che mira al cuore del sistema.
Il superamento dei manicomi avverrà solo nel 1978 ad opera della legge che porta il nome di Franco Basaglia e che chiuderà per sempre, con quelli, anche il ciclo dei ricoveri di Alda. Mentre la storia si compie lei scrive “La pazza della porta accanto” e rivendica per il poeta ancor più che il diritto addirittura la necessità di essere felice.
“Quello che è importante da dire è che le difficoltà psicologiche generano isolamento, e la solitudine genera la malattia mentale. La solitudine è scandalosa, orrenda. Andrebbero veramente sanzionati coloro che non aiutano il malato”. Le parole di Alda sono coraggiose, un atto di accusa: “È doveroso bussare alla porta di chi è solo”. Tracciano la strada, servono da insegnamento e anche dopo molti anni dalla sua morte sono assolutamente attuali. “L’emarginazione è peccaminosa”, è dunque questo il monito che arriva adesso dalla madre che si serve della penna della figlia. Dirompente si rivela perciò la portata sociale e insieme politica dell’arte e dell’esistenza stessa di Alda Merini.
Ma c’è dell’altro, in questo volume. C’è uno spazio diverso, dove si dipana ancora la vita che da questo personalissimo ritratto prende forma. Sono i momenti più intimi, le riflessioni e i ricordi di famiglia; sono stanze nelle quali il lettore impara da subito a entrare in punta di piedi, come si fa per ascoltare le confidenze di chi non c’è più e ritorna a trovarci, per un momento, nella dimensione ovattata del sogno.
Titolo: “Alda Merini, mia madre”
Autore: Emanuela Carniti
Editore: Manni
Prezzo: 16 euro