650.000 persone, un’ondata di richiedenti asilo in fuga dalla guerra in Siria, accolti in Giordania non senza enormi difficoltà ma con senso di fratellanza. Fratellanza, una parola che sembra uscita dal nostro vocabolario.
Paura, vulnerabilità, soprattutto tra quell’80% di siriani che vivono nelle città. Il rischio di non rientrare tra quanti ricevono dall’UNHCR una piccola ma indispensabile somma mensile di denaro, l’unica forma di rete protezione sociale. Perché i fondi non bastano per tutti.
Nella procedura che porta a dare delle priorità alle famiglie beneficiarie vengono presi in considerazione 54 diversi indicatori. Considerando che circa il 78% dei rifugiati siriani vive sotto la soglia di povertà, significa che qualcuno di loro entrerà in una fascia ancora più bassa, la più bassa di tutte.
Cosa succede a chi non verrà ammesso al sostegno economico diretto, in un sistema che allo stato di rifugiato accompagna quasi sempre la proibizione di lavorare? A quale sotto livello di sotto categoria umana si può essere condannati?
Risalendo all’origine, mi sento in obbligo di pensare che le cause di tutto questo siano essenzialmente due, spesso intrecciate tra di loro: conflitti religiosi e guerre. Due attività verso le quali noi occidentali abbiamo una vocazione spinta. Siamo ormai diventati maestri nell’alimentare guerre. Lontano da casa, preferibilmente. Guerre che sostengono le nostre economie e le consumate identità dei nostri stati nazionali. Pensando per un momento a quanto poco il mondo occidentale sia pronto a superare gli odi razziali e religiosi, né tanto meno a uscire dalla logica dell’industria militare, si ha la sensazione di dover spegnere l’incendio portando l’acqua con le mani.
Nella nostra terza giornata di viaggio andiamo a visitare il campo di Zaatari, il piú grande dei due allestiti in Giordania. Lì vedo il prodigio che può produrre l’essere umano quando è scaraventato nelle condizioni limite della sopravvivenza. Il campo di Zaatari ospita quasi 80.000 rifugiati siriani. Inizialmente accolti con mezzi di fortuna, tende ora sostituite da container che lentamente prendono l’aspetto di abitazioni: piante, qualche tappeto, cucine provvisorie che funzionano egregiamente. Gente che ha perso tutto e che riparte da basi minime. Il minimo della dignità umana, reinventandola.
Così una tendopoli è cresciuta e si è trasformata in un “campo” esemplare, una nuova città provvisoria ma ricca di vita, alimentata da una strepitosa centrale a energia solare, dotata di campi da calcio e ora da due cinema, dove spuntano piccoli bar e ristoranti anch’essi provvisori ma calorosi e colorati.
La vita che si reinventa dal nulla. Dall’assoluta emergenza si è passati in pochi anni alla rinascita di una comunità di esseri umani. Porto con me un’immagine su tutte, quella di Tarek Mohamed Hamden e della sua famiglia. Tarek viveva in Siria dove ha sempre fatto un lavoro duro nell’edilizia. Nel 2012 ha avuto la sua casa distrutta. Nessuna possibilità di sopravvivere nel suo Paese. È dovuto fuggire.
Da quando è a Zaatari ha iniziato a coltivare le sue passioni visionarie: dipinge piccoli quadri su materiali poverissimi, pezzi di legno e cartone, con gli strumenti che riesce a procurarsi. Soprattutto sì è specializzato in una cosa: con un minuscolo tagliere, e con infinita pazienza, intaglia strabilianti sculture su una delle cose più minime che ci siano: le punte delle matite. Una punta di matita è “quasi niente “…
Fissando per ore questo oggetto infinitesimale Tarek scatena un’immaginazione profonda che produce microscopiche sculture di impatto affascinante. Una bellezza nata dal dolore, dalla privazione, dallo sconcerto. Da tutto questo, dal niente, germina nuova vita.
A Zaatari ho incontrato la dignità umana, la vitalità, l’allegria. Una lezione. Sono grato a UNHCR, a Giovanna e Claudia splendide compagne di viaggio, per tutto questo.
Note di viaggio
Zaatari è uno dei due campi rifugiati che l’UNHCR gestisce insieme con le autorità giordane. Ad appena 20 km dal confine con la Siria, il campo Ospita 76mila persone, di cui circa il 60% sono minori. Oltre a svariate attività nei campi della protezione dei diritti, dello sviluppo comunitario, dell’autonomia economica e dei bisogni di prima necessità, l’UNHCR assicura l’accesso della popolazione di Zaatari ai servizi sanitari, attraverso 4 ospedali, dove si svolgono in media 7000 visite alla settimana. In sette anni il campo è cresciuto fino a diventare la quarta “città” della Giordania. Nel 2017, l’UNHCR ha realizzato il più grande impianto fotovoltaico mai allestito in in campo rifugiati, riuscendo così ad assicurare 14 ore al giorno di energia elettrica alle famiglie.
Giovanna Li Perni – UNHCR Italia