La Biennale di Venezia, seconda puntata. La sfida del labirinto

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Sun Yuan & Peng Yu, Can’t help myself, 2016, robot © Gian Marco Sivieri

Riprendo il discorso sull’itinerario che vi sto proponendo attraverso la 58° edizione della Biennale di Venezia, diretta da Ralph Rugoff e intitolata May You Live In Interesting Times.

Vi ho già raccontato le mie impressioni sulla mostra negli spazi dell’Arsenale, ora mi occuperò del Padiglione Italia e della parte ospitata nel Padiglione Centrale ai Giardini.

Il curatore del Padiglione Italia, Milovan Farronato, ha scelto il titolo Né altra, né questa: la sfida del Labirinto, il cui sottotitolo è un rimando a un famoso saggio di Italo Calvino La sfida del labirinto, apparso nel 1962 nella storica rivista “Il Menabò” fondata dallo stesso Calvino con Vittorini. Esaurita la stagione neorealista, il testo individuava nel confronto con i nuovi scenari della società moderna, modellata dai mass media, il boom economico e la rivoluzione dei consumi, il compito della letteratura, chiamata ad “affrontare la complessità del reale, rifiutandosi alle visioni semplicistiche che non fanno che confermare le nostre abitudini di rappresentazione del mondo”, concludendo: “quello che oggi ci serve è la mappa del labirinto.”

Direttore artistico del Fiorucci Art Trust, già docente allo IUAV di Venezia e direttore dell’organizzazione no-profit milanese Viafarini, Farronato affida ora all’arte il dovere di confrontarsi con il labirinto dei nostri indecifrabili giorni, rivendicando così la centralità dell’aspetto intellettuale nell’attività artistica. Sono tre gli artisti da lui convocati per rappresentare il nostro paese: la milanese Liliana Moro (1961), il marchigiano residente a Londra Enrico David (Ancona 1966) e la romana Chiara Fumai (Roma 1978 – Bari 2017), scomparsa due anni fa.

Lo spazio architettonico delle Tese delle Vergini dell’Arsenale viene schermato e ridefinito dall’allestimento dello studio Julia in un sistema aperto, dove il visitatore non trova un percorso univoco, ma può scegliere da quale dei due ingressi accedere e decidere liberamente come muoversi. Anche la modalità di presentazione delle opere è funzionale a un’immersione nel labirinto: le didascalie con i titoli sono collocate in posizione defilata (sul pavimento o in basso), perché quel che conta innanzi tutto non è chi sia l’autore, ma l’esperienza dell’incontro con l’opera, elemento primo e determinante che interpella i visitatori per frammenti non lineari, in modo rapsodico, tramite accensioni improvvise, inciampi e deviazioni.

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Chiara Fumai, This last line cannot be translated (detail), 2017. Foto dal profilo Instagram di Milovan Farronato

Di Chiara Fumai viene presentato This last line cannot be translated, un lavoro ideato ma non realizzato in occasione di una mostra collettiva (Atene 2017) curata da Farronato stesso: il progetto, articolato in una serie di mappe murali che disegnano un complesso itinerario misterico, è stato ricostruito con cura filologica, lavorando con i collaboratori dell’artista, e forma un leitmotiv del padiglione, che rivela la fascinazione della Fumai per il pensiero ermetico, le storie di streghe e magia e i percorsi iniziatici.

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Enrico David, The Incessant, bronzo, 2017 e Racket II, jesmonite e acciaio patinato, 2017. © Gian Marco Sivieri

Di Enrico David si privilegia la produzione scultorea, grazie alla quale lo spazio del padiglione brulica di inquietanti figure, che sorprendono i visitatori comparendo sopra le loro teste, emergendo dal pavimento o sbucando da luoghi inaspettati, sovente unite in connubi bizzarri. Questi membri di una deformata comunità umana, nei quali si colgono, rivissuti con originale indipendenza, ricordi di grandi del ‘900 come Adolfo Wildt e Francis Bacon, sembrano plasticamente somatizzare, nelle sofferte manipolazioni, amputazioni e slogature cui i loro corpi vengono sottoposti, le multiformi e contraddittorie apparenze del labirinto.

Di Liliana Moro ci viene offerta una piccola antologica, con opere appartenenti a diverse fasi della sua carriera, testimonianza di una versatilità che le permette di non lasciarsi intrappolare in uno stile definito.

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Il suo esprit de finesse le consente di esprimersi con leggerezza, passando da opere di raffinata eleganza poetica, come La spada nella roccia, ad altre dove materiali poveri e quotidiani vengono sottoposti a un procedimento di straniamento dalla funzione originaria e, grazie a sorprendenti accostamenti, a una successiva risignificazione, come in Avvinghiatissimi (1992), abbraccio fra due materassi legati assieme da una cinghia rossa a croce e cullati da uno struggente tango di Astor Piazzolla.

Come è stato notato da diversi commentatori, a imporsi è la visione del curatore, che agisce come un regista: sceglie il copione, assegna le parti e dirige gli attori. La più penalizzata risulta la Fumai: la scelta di ricostruirne l’ultima opera, se è testimonianza per certi versi commovente del legame tra l’artista e Farronato, impedisce però di mostrare ai visitatori un profilo più compiuto della sua attività.

La metafora del labirinto inoltre è suggestiva, ma esiste davvero un nesso tra il tema del padiglione e le specifiche opere dei tre artisti selezionati? In realtà nel labirinto avrebbero potuto essere accolti numerosi altri nomi con altre opere senza comprometterne la plausibilità. Ma questa impasse teorica, a guardare bene, accomuna il Padiglione Italia alla struttura della Biennale stessa che, sotto l’etichetta dei “tempi interessanti”, crea un contenitore elastico e sufficientemente accogliente per ospitare opere le più varie e diverse.

Possiamo ritornare ora alla mostra principale ai Giardini, i cui spazi meno fortemente caratterizzati rispetto all’Arsenale, lasciano le opere e i visitatori in un certo senso nudi, le une di fronte agli altri.

Ad esempio il Muro Ciudad Juárez (2010) di Teresa Margolles, trasportato di peso dalla cittadina messicana, esibisce i suoi fori di pallottole e filo spinato, che evocano la violenza e gli assassini di cui è stato testimone, ma con un’evidenza dimostrativa meno emotivamente insinuante de l’affine La Busqueda vista in Arsenale: la piena luce e le bianche pareti dei Giardini soffocano anziché esaltare la suggestione metaforica che l’opera potrebbe comunicare.

Una delle opere più spettacolari e più intense è Can’t help myself (2016) del duo di artisti cinesi Sun Yuan e Peng Yu: un nero robot di grandi dimensioni, rinchiuso in una gabbia dalle pareti di vetro, è impegnato nel vano tentativo di raccogliere con la sua grande pala un liquido rossastro che si riversa da tutte le parti. Osservandone i movimenti imprevedibili, talvolta funzionali talaltra irrazionali, alternati a pause, siamo costretti a leggerli in termini di azioni e comportamenti, umanizzando una macchina la cui apparenza fredda e meccanica stride fortemente con questa nostra lettura, trasmettendoci così una sensazione di disagio via via crescente. Questo robot che, per quanto si affanni, non riesce a fermare il colare del sangue – così siamo obbligati a interpretare quel liquido – e sembra talvolta dolersene e arrendersi alla vanità dei suoi sforzi, si carica infatti di numerosi significati simbolici, senza obbligarci a privilegiarne alcuni.

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Slavs and Tatars, Tranny Tease (pour Marcel), 2009-16, installazione di 15 cartelli. © Gian Marco Sivieri

Di tutt’altro genere è l’installazione Tranny Tease (pour Marcel): 15 colorati cartelli compongono una caotica ed elegante sarabanda visiva di alfabeti, traduzioni e translitterazioni fantastiche, intrecciando lingue e simboli arabi, ebraici, latini e cirillici al linguaggio visivo dell’aggressiva grafica pubblicitaria contemporanea. Quest’opera del collettivo Slavs and Tatars invita a riflettere con ironia, acutezza intellettuale e pulizia formale sul melting pot di culture, lingue, ideologie e religioni che, con complessi movimenti e secondo variabili rapporti di forza, si incontrano e scontrano incessantemente “nell’area a oriente dell’ex muro di Berlino e a occidente della Grande Muraglia cinese conosciuta come Eurasia”.

Diversi artisti si affidano alla forma video, piegata a innumerevoli varianti di soluzioni tecniche, stilistiche e narrative, ma è difficile, in una manifestazione pletorica come la Biennale, riuscire a concentrarsi su opere che sembrano sovente divertirsi a sfidare lo spettatore con una totale disintegrazione dei nessi logici e narrativi. Uno dei video più convincenti e belli, se si può usare l’aggettivo che molti intenditori del contemporaneo considerano volgare, passatista e impronunciabile, è Ocean II Ocean del francese Cyprien Gaillard, che incrocia due differenti situazioni: virtuosistiche riprese dei reperti fossili, incastonati nelle fastose pareti delle stazioni della metropolitana a Mosca, con altre subacquee tra i vecchi vagoni di quella di New York, che venivano dismessi inabissandoli nelle acque della baia. Le due parti sono tenute insieme non solo dall’argomento, ma anche, sul piano simbolico, dall’elemento acquatico, che congiunge le remote età dei fossili con i nuovi reperti industriali dei nostri giorni, e su quello formale dall’avvolgente tessuto sonoro. Quest’opera appartiene in realtà al percorso dell’Arsenale, ma mi sono reso conto che avere omesso di accennarvi nel pezzo precedente è stata una mancanza.

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Kemang Wa Lehulere, Flaming doors, 2018, legno e metallo di banchi di scuola di recupero, sedie con altoparlanti, pneumatico, altoparlanti, cani di porcellana. © Gian Marco Sivieri

Meritano infine di essere ricordate: l’installazione Flaming doors, del sudafricano Kemang Wa Lehulere, che recupera da sedie, banchi di scuola e casette per uccelli legno e metallo, con cui allestisce un cerchio rituale comunitario, sorvegliato da cani in porcellana e accompagnato da canti di iniziazione xhosa (il gruppo etnico più numeroso del Sudafrica dopo gli zulu), in un’opera che concilia impatto scenografico e suggestione sacrale; i deliziosi disegni del kenyota Michael Armitage con scene dalle manifestazioni politiche del 2017, che portarono alle elezioni nel paese: gli schizzi isolano persone, gesti e situazioni con l’essenzialità di scatti fotografici, aggiungendovi un di più di emozione e di non detto, esaltati dal procedere sussultorio dei piccoli tratti discontinui di colori elementari. A testimoniare che, nel 2019, il linguaggio del disegno e della pittura continua a riguardarci profondamente.