La Biennale di Venezia, prima puntata. Viviamo tempi interessanti?

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Vista sull’Arsenale. © Gian Marco Sivieri

May You Live In Interesting Times è il titolo della 58° edizione della Biennale di Venezia, probabilmente la più importante manifestazione dedicata all’arte contemporanea mondiale, senz’ombra di dubbio la più longeva: la prima edizione risale infatti a due secoli fa, era il 1895.

Il titolo deriva da un discorso del parlamentare britannico Chamberlain sul finire degli anni ’30, che citava un antico anatema cinese: “Che tu possa vivere in tempi interessanti”. Il presunto anatema in realtà non è mai esistito, ma il concetto è stato a lungo evocato nel corso del ‘900 e, nell’incerta congiuntura di questi primi vent’anni del millennio, può assumere molteplici e inediti significati, meritevoli di approfondimento. È a partire da questa ambigua e fertile suggestione che il curatore Ralph Rugoff, un intellettuale americano laureato in semiotica e relativamente appartato, da più di vent’anni residente a Londra dove è direttore della Hayward Gallery, ha intessuto i fili della sua Biennale: 79 artisti, 89 partecipazioni nazionali – tra cui per la prima volta Ghana, Madagascar, Malaysia e Pakistan -, e un’articolazione inedita su 2 mostre, una all’Arsenale, l’altra al Padiglione Centrale e ai Giardini, nelle quali ritornano i medesimi artisti con opere diverse.

Rugoff prende una decisione sacrosanta e controcorrente, ridurre cioè il numero di artisti e opere rispetto alle ultime, sempre più pletoriche, edizioni, per la ragione più semplice e intelligente che si possa immaginare: evitare di stroncare i visitatori affogandoli sotto un quantitativo insostenibile di opere, informazioni, messaggi, concetti, ecc. Il contatto con l’arte dovrebbe introdurci a una dimensione diversa da quella quotidiana e quindi evitarci situazioni da: “oddio, ho qualche ora e devo vedere tutto e leggere tutto”, che inevitabilmente si traducono in: “vabbè, inutile rompersi la testa, c’è troppa roba, faccio un paio di selfie e tiro avanti.”

L’idea di riproporre gli stessi artisti nei due spazi è stata criticata, ma una Biennale senza critiche sarebbe come piazza san Marco senza piccioni… Invece la decisione è importante, perché permette di stabilire legami e connessioni e di cogliere la complessità del pensiero e del lavoro sulle forme che spesso (non sempre) si cela dietro le opere degli artisti, senza ridurli all’unica dimensione imposta dal curatore/padrone, figura che apparentemente ancora domina il mondo dell’arte contemporanea, ma in realtà, in quest’accezione muscolare, è in declino irreversibile; fortunatamente s’intende.

Ma è tempo di avviare il racconto della mia visita, per proporvi un (personalissimo) itinerario, che assume il titolo della rassegna nel modo più anarchico possibile, adottando alla lettera quanto Rugoff scrive a proposito delle caratteristiche degli artisti scelti, e cioè: “osservare la realtà da più punti di vista”, “dare significati alternativi a ciò che prendiamo come dati di fatto” e “guardare con sospetto a tutte le categorie, i concetti e le soggettività che sono dati per indiscutibili.”

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Uno scorcio lungo le mura dell’Arsenale. © Gian Marco Sivieri

Partiamo dal bellissimo spazio dell’Arsenale, luogo che ancora consente deviazioni e talvolta piccole fughe, propizie, in rare e fortunate contingenze, ad avvertire l’atmosfera di Venezia, quello struggimento di acque e silenzi che ne costituiva l’incanto.

Il primo incontro memorabile è con le fotografie del giovane indiano Soham Gupta (1988): il suo sguardo si rivolge a individui precipitati oltre i margini della società, abitanti della notte, unica compagna che accoglie e non giudica. L’inquadratura ravvicinata, lo sfondo indistinto, il lampo del flash che taglia tenebre di un’impenetrabilità che fatichiamo a immaginare non trasformano le persone in prede da esibire: Gupta fotografa gli abitanti degli slums di Calcutta con lucidità e partecipazione, con la testa e il cuore, creando immagini di struggente intensità, che si fanno carico dell’antico dovere del reporter, la testimonianza.

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Soham Gupta, Series Angst. 2013-2017, stampa fotografica

Si affida alla fotografia anche la Sudafricana Zanele Muholi (Sudafrica 1972), i cui ritratti in bianco e nero in grandissimo formato di uomini e donne della comunità LGBTI africana punteggiano gli spazi dell’Arsenale, parandosi di fronte ai visitatori con una ferma monumentalità che difficilmente lascia indifferenti. Muholi non si considera un’artista, ma un’attivista visiva che utilizza l’arte come strumento; ma se le sue foto non avessero quella perentorietà scultorea che le contraddistingue, vale a dire una potenza formale che è, piaccia o no, il connotato fondamentale di ciò che chiamiamo arte, ben pochi se le ricorderebbero. Con buona pace, per quanto mi riguarda, di quel che lei stessa pensi sul proprio lavoro.

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Shilpa Gupta, For, In Your Tongue, I Cannot Fit, installazione sonora con sound 100 speaker, microfoni, testi stampati e aste metalliche, 2017-18. © Gian Marco Sivieri

Un’altra testimonianza del valore dell’arte indiana ci viene da Shilpa Gupta (Mumbai 1976), da non confondere con l’omonimo Soham: la sua installazione For, In Your Tongue, I Cannot Fit è uno dei lavori più emozionanti e formalmente rigorosi di tutta la Biennale. 100 nere acuminate barre di metallo portano infilzato sulla punta un foglio ciascuna, su ognuno sono scritti versi di poeti di epoche, lingue e paesi differenti, accomunati dall’essere stati incarcerati per i propri scritti; sopra ogni sbarra un microfono sospeso recita a intervalli alcuni versi in solitaria, cui rispondono in coro tutti gli altri, con un effetto trascinante: ora si attiva, cessa, poi riprende, in una litania avvolgente come un’onda, resa ancora più ipnotica dall’alternarsi delle diverse lingue in cui sono scritte le poesie, a ricordarci che non ci sono paesi o civiltà che possano dirsi innocenti al riguardo.

L’opera La Busqueda di Teresa Margolles (Culiacán, Messico 1963) si avvale invece della tecnica del prelievo dal reale, trasportando dal centro storico di Ciudad Juárez tre pannelli di vetro sporchi e graffiati, ricoperti da immagini segnaletiche con i volti di donne scomparse: mentre osserviamo quelle consunte fotocopie, indizi di una spirale perversa di violenza di genere e femminicidi che non accenna a finire nel Messico dei nostri giorni, ecco irrompere inaspettato il frastuono di un treno, che scuote e fa vibrare le strutture, buttandoci di colpo nel fitto di quella realtà, con una potenza che si è giustamente meritata la segnalazione dalla giuria.

Ma non mancano toni differenti, come l’ironia raffinata dell’artista transgender Martine Gutierrez (USA 1989), che gioca con l’ambiguità del proprio corpo, riprendendosi in scenari da high society, rappresentati in foto da rivista patinata per taglio, luci e colori, nelle quali ci accorgiamo però che tutti i personaggi con cui l’artista si rapporta non sono altro che manichini…

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Jimmie Durham, Red Deer, 2017, teschio di cervo maschio europeo, tubi d’acciaio, legno, cuoio, vetro, vernice nera (per auto). © Gian Marco Sivieri

Sarà perché, nonostante la leggera cura dimagrante imposta da Rugoff, il menu della Biennale continua a essere pantagruelico e impossibile da gustare tutto se non fermandosi una settimana o più, ma la parte centrale dell’Arsenale si rivela faticosa: incontriamo opere ben confezionate, ma che raramente sanno graffiare. Si ritagliano uno spazio i grandi e delicati dipinti astratti dell’etiope Julie Mehretu (Addis Abeba 1970) e la lunga scultura installazione Veines aligned della nigeriana Otobong Nkanga (Kano 1970), premiata con la menzione della giuria per la rappresentazione di un fiume della propria terra, devastato da inquinamento, saccheggi e scontri fratricidi, eppure risplendente di una paradossale bellezza nel suo nitore di marmi venati e vetri di Murano.

La mostra si chiude però con due colpi di coda: gli animali fantastico/preistorici dell’americano Jimmie Durham (1940), insignito del Leone d’oro alla carriera, plasmati mescolando scarti, materiali industriali e naturali in un mix particolarissimo. Per queste sue sculture teatrali, giocose e inquietanti, Rugoff nella motivazione del premio ha usato l’aggettivo playful, per ricordarci che il gioco è una delle attività tipiche dell’essere umano; e spesso molto seria.

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Anicka Yi, Biologizing the Machine (tentacular trouble), 2019, alghe, led, falene automatiche, acqua e pompe. © Gian Marco Sivieri

E infine i bozzoli dell’artista coreana Anicka Yi (Seoul 1971), illuminati, sospesi su un terreno ondulato cosparso di pozze d’acqua stagnante e attraversati dal volo di falene (per tranquillizzare gli animalisti: elettroniche…) imprigionate al loro interno. Biologizing the Machine (tentacular trouble) condensa in un amalgama perturbante una serie di ossessioni dei nostri giorni: la crescente indistinzione tra vita organica e artificiale e il connesso problematizzarsi del confine tra umano e non umano, la proliferazione incontrollata della ricerca tecnico-scientifica nel campo dell’ibridazione, la paura di epidemie e contagi a opera di invisibili e letali agenti batterici; questi temi si incarnano in forme scultoree biomorfe, crisalidi tattili al tempo stesso fantascientifiche e viscerali, capaci di affascinare e suscitare repulsione, sensazioni che ci portiamo dietro ancora quando, usciti dal percorso, ritorniamo a costeggiare le acque lagunari.