Adozioni internazionali in forte calo in Italia, ecco perché

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Maria Virgillito è la presidente di A.S.A. Onlus, acronimo che sta per Associazione Solidarietà Adozioni Onlus, una delle principali Agenzie autorizzate che si occupa in Italia di adozioni internazionali. Ha la sede a Catania, in una struttura antica e immersa in un angolo di verde, un incavo dentro alla circonvallazione della città dove non senti passare nemmeno le auto. È qui che Alley Oop la incontra per un commento al Report annuale della Commissione per le Adozioni Internazionali, pubblicato il 25 giugno scorso.

Il documento che dà atto dei fascicoli compresi tra il 1° gennaio del 2018 e il 31 dicembre pone A.S.A. al quarto posto, con 66 minori adottati nell’anno di osservazione – provenienti perlopiù dall’Ungheria – e 46 coppie adottive. Si stacca di poco dalle due che la precedono, mentre la prima nel Paese è CIFA Onlus con quasi il doppio dei numeri, spalmati per provenienze soprattutto tra la federazione russa e la repubblica popolare cinese.

Chi accedesse all’Albo nazionale degli Enti autorizzati, consultabile al sito web dell’Autorità centrale per la Convenzione de L’Aja vi troverebbe una cinquantina di Agenzie che insieme al Tribunale per i minorenni, alle Regioni e ai Servizi degli enti locali compongono il quadro degli attori istituzionali coinvolti. Su tutti la C.A.I. ha compiti di vigilanza, potere di fornire autorizzazioni e disporne la revoca, proporre accordi e attivare collaborazioni con le Autorità Centrali degli altri Stati. Si tratta di un organismo istituito presso la Presidenza del Consiglio, con al vertice il Premier e nella carica di vicepresidente, oggi, Laura Laera per anni giudice a Milano e a Firenze, esperta di diritto di famiglia e minori.

Il Report è di una cinquantina di pagine, redatte in collaborazione con l’Istituto degli Innocenti che di infanzia abbandonata si occupa dal lontano 1445. Dati aggregati e alcune importanti rilevazioni, in particolare quest’anno si legge di minori più grandicelli d’età e di cosiddetti special needs. In soldoni, il documento è un appuntamento fisso. Disegna, a cadenza annuale, una tabella di sintesi che mette insieme le famiglie adottanti e i minori stranieri che in Italia trovano una casa.

Ma come bisogna leggerli quei numeri? «Prima ancora di parlare di cifre dobbiamo avere ben chiaro cosa c’è al centro di ogni nostro ragionamento – spiega Maria Virgillito – Dobbiamo stare molto attenti a non assumere un’ottica adultocentrica. In linea con la Convenzione de L’Aja, ratificata in Italia con legge del 2001 e che ha rivoluzionato la prospettiva, chiariamo sin da subito alle coppie che si rivolgono a noi come il sistema ruoti attorno al bambino. È il minore la nostra stella polare. E con quello intendo il suo diritto ad avere una casa e una famiglia». Questa è in fondo la missione delle Agenzie ed è una missione che nel racconto della presidente di A.S.A. sa di scelta antica: «l’Associazione ha compiuto vent’anni a maggio, abbiamo ottenuto l’autorizzazione nel 2000 e aperto sedi secondarie in tutta Italia. Mi piace dire che A.S.A. è la quarta dei miei figli».

Ma se il Report annuale è una sorta di database, non può sfuggire come negli ultimi anni le adozioni internazionali siano state interessate da un forte calo, in un trend che pare rallentato ma che tuttavia non si è ancora invertito. 1.130 nel 2018 contro le 1.163 dell’anno 2017, queste «le coppie che hanno fatto richiesta di autorizzazione all’ingresso in Italia di minori stranieri alla C.A.I. – si legge nel documento ovvero le coppie che, in possesso del decreto di idoneità, hanno concluso con successo l’iter adottivo attraverso l’intermediazione di un ente autorizzato». Un migliaio, dunque, e per lo più concentrate nelle regioni del nord, principalmente la Lombardia e il Veneto con, a seguire, il Lazio: «a livello territoriale le aree con il maggior numero di coppie adottanti si confermano in linea con i precedenti monitoraggi».

accurate-boy-build-298825Perché le adozioni internazionali siano in calo è aspetto che merita l’approfondimento. Maria Virgillito ha le idee chiare e sgombra il campo dalla contingenza della crisi. Ci dice che a suo avviso non è questione di povertà né di precarizzazione, fattori che possono incidere ma non certamente sui grandi numeri. E subito respinge quello che ci suggerisce essere un luogo comune: «non è adottare che costa un occhio della testa. In Italia per concludere un percorso di questo genere ci vogliono circa quindicimila euro e sono somme spalmate in più momenti, perché corrispondono ai diversi adempimenti che scandiscono la procedura. È chiaro che spesso le famiglie arrivino a questa spesa dopo averne affrontate altre e ben più cospicue, ricorrendo alle procedure di fecondazione assistita, per dirne una».

Il percorso adottivo chiama in causa tutti, a cascata. Ce lo spiega ancora la presidente «quando parliamo di adozione non dobbiamo negare che c’è a monte una sconfitta dello Stato che non si è dimostrato in grado di garantire al bambino la permanenza presso la propria famiglia d’origine. È chiaro che l’adozione interviene dopo, preoccupandosi di assicurare a quel minore il sacrosanto diritto ad avercela una famiglia, nella quale crescere, e a scegliere per lui la migliore possibile. Le coppie sono per noi delle risorse». Il messaggio è che gli adulti sono importanti, ma solo in funzione del bambino che deve rimanere al centro della ragnatela, giustamente.

E per tornare ai numeri, il Report conta 1.394 minori stranieri per i quali è stata rilasciata l’autorizzazione all’ingresso in Italia, a scopi adottivi. Sollecitata, alla riflessione la presidente di A.S.A. non si sottrae, anzi a tratti ci invita ad allargare la lente: «Per spiegarci il calo basta guardare ai Paesi di accoglienza, ma non solo all’Italia. L’Europa ha puntato moltissimo e ha investito grandi risorse sull’affido, per esempio. Il problema si pone quando il sistema-affido restituisce però al circuito delle adozioni bambini che provengono da un fallimento di quell’esperienza. Minori che sono passati di famiglia in famiglia e si ritrovano a un’età che spesso va dai 10 ai 15 anni, con un vissuto certamente doloroso e fortemente traumatico».

La questione a un certo punto si fa politica, insomma. Stiamo ragionando in fondo di scelte e di priorità, in grado di motivare gran parte dei risultati che quel documento ci consegna. E a guardare quelle decisioni si spiegano infatti tanto il calo nelle adozioni internazionali, quanto l’incidenza dei cosiddetti special needs – intendendo con la locuzione l’indicazione di bambini con bisogni particolari – come anche degli older child, di cui si dirà più avanti. Sullo sfondo ci sta un principio che parla di sussidiarietà: il bambino va dapprima reintegrato nel suo nucleo familiare; ove ciò non si riveli possibile, per lui va scelta una famiglia adottiva del suo stesso Paese di nascita; in ultimo, appunto in via sussidiaria, entra in gioco l’adozione internazionale. Questa l’impronta del sistema, come voluto dalla stessa Convenzione quando declina, in un binomio, accordo sulla protezione dei minori e cooperazione che vincola, che impegna, gli Stati coinvolti.

art-child-colored-pencils-1322611Ciò che salta agli occhi sono per l’appunto i 981 minorenni portatori di uno o più special needs. Stiamo parlando del 70% degli ingressi. Anche su questi dati la chiave di lettura deve partire da un’angolatura più ampia. L’osservazione ci conferma che il nostro Paese – diversamente da altri – accoglie, con grande disponibilità, anche questi minori con speciali esigenze. Così come fa con gli older child. La definizione aiuta poco, non ha una lettura univoca nemmeno tra le Agenzie, e si presta a una forbice molto ampia. Per alcuni tale è considerato il bambino che abbia superato il secondo anno di età; per altri il terzo anno; per altri ancora è un “bambino grande” quello che abbia superato il sesto, l’ottavo o il dodicesimo anno. I dati ci dicono che in Italia l’adottato che abbia più di sette anni rappresenta ormai la maggioranza degli ingressi. Ecco il quadro dell’accoglienza nostrana: bambini grandi e per la maggior parte con esigenze particolari.

Ma a dare il calore di una casa a questi figli, in definitiva, chi è? Superata la dimensione quantitativa che è la più immediata restituzione di un documento come il Report, tra quelle pagine cerchiamo la qualità. Ci interessa la fotografia delle coppie, per capire che faccia abbiano i genitori che adottano. L’età, per così dire matura, di questi papà e di queste mamme, è dato inequivocabile. Al momento dell’autorizzazione all’ingresso, parliamo di donne e uomini che hanno già tra i 45 e i 47 anni. Sono portatori di una istruzione medio alta e nove volte su dieci – quasi il novanta per cento – sono senza figli. Dei due è peraltro la moglie a presentare un titolo di studio e una professione più altamente specialistica. In Italia del resto è incontestabile come le donne si siano finalmente affacciate in massa – e con risultati più che brillanti, nonostante una parità che è ancora lontana da venire – al mondo delle professioni, per decenni di esclusivo appannaggio degli uomini. E il fatto traspare, decisamente.

«La chiave di tutto è sempre la consapevolezza. Quando le coppie arrivano a imboccare un percorso di adozione devono sapere già che in ballo non c’è il loro diritto di adottare ma piuttosto la loro disponibilità ad accogliere – la posizione di Maria Virgillito è messaggio, cristallino – Non possiamo però dire, purtroppo, che la cultura dell’accoglienza sia stata recepita come si dovrebbe. E allora bisogna lavorare tutti in una sola direzione; fondamentale è la collaborazione tra Enti e C.A.I., come imprescindibili sono i rapporti con i Paesi; la cooperazione internazionale è la via maestra».

A riguardare la relazione della Commissione i dati si confondono con la realtà, a volte sembrano persino in contrasto. E a venir fuori è forse l’amore che, quando c’è, va a segnare la differenza. Così, se andando per rilevazioni «in linea generale è possibile affermare che un “bambino grande” è portatore di alcune caratteristiche ricorrenti, come l’avere un legame più forte e radicato con la propria terra d’origine (…), l’aver generalmente vissuto diversi anni in Istituto e quindi l’aver presumibilmente subito le deprivazioni affettive, psicologiche e relazionali tipiche», d’altra parte non può tacersi come da quei dati si possa giungere a conclusioni del tutto inattese. Spuntano fuori da quelle pagine, infatti, sorprendenti ritratti di famiglia nella quale quel “bambino grande” supera le iniziali difficoltà e riesce ad integrarsi talmente bene che «i disturbi comportamentali (…) sono spesso destinati a scomparire una volta che il bambino si è stabilizzato».

blocks-child-colorful-105855L’altra domanda che dobbiamo porci riguarda proprio i bimbi che accogliamo nelle nostre città, in quante per dimensioni sono capitali come anche nelle piccole province. Quelli che arrivano in Italia con la speranza di una mamma e di un papà sono per lo più maschietti; sono d’età compresa tra i 5 e i 9 anni e sono in grande maggioranza minori di provenienza russa, poi colombiana, ungherese, bielorussa, indiana, quindi a seguire, giungono da noi bambini bulgari, cinesi e vietnamiti. Trentotto i Paesi di provenienza, convenzionalmente detti pure Paesi d’origine.

Da quanto raccolto, resta chiaro come in Italia la procedura di adozione internazionale sia accessibile solo attraverso l’intermediazione delle Agenzie, cui le coppie devono conferire l’incarico entro un anno dal decreto del Tribunale per i minorenni che ne sancisce l’idoneità. Sono pertanto attori istituzionali cui va riconosciuta un’indubbia centralità, anche in ragione del loro compito precipuo. Gli Enti autorizzati sono descritti sul sito della C.A.I. come coloro i quali «informano, formano, affiancano i futuri genitori adottivi nel percorso dell’adozione internazionale».

Ma se gli Enti sono ingranaggi tanto indispensabili della macchina è evidente allora come sia necessario vigilare. «Casi, anche isolati, di condotte inadeguate possono aver effetti devastanti su un intero sistema che finisce per restarne inevitabilmente travolto – la presidente di A.S.A. è molto severa sulla necessità di un controllo che possa dirsi attento e rigoroso – È una garanzia per tutti, per i bambini, per chi lavora onestamente e per le coppie che si affidano a noi».

E toccando l’argomento, sfonda una porta che da poco sembra essersi aperta. È dell’ottobre 2017, infatti, la prima storica condanna resa da giudici italiani che apre la strada al risarcimento del danno a carico della C.A.I. proprio per omessa vigilanza.