Alla piccola Alma vengono fatti i buchi alle orecchie. Per tutta la durata della procedura la bambina non dice una parola. Lo sguardo è pressoché fisso, le reazioni estremamente controllate. Eppure la mimica del suo viso tradisce un miscuglio di sensazioni contrastanti: dolore e soddisfazione, paura e determinazione.
È probabile che molte bambine che hanno vissuto questo rito di passaggio si ricordino di aver provato lo stesso mix di impazienza e terrore. Altrettanto probabile è che molte di loro abbiano rimosso le sensazioni provate semplicemente per via della banalità della situazione, così comune e dunque apparentemente insignificante. Ma cosa ci dice il “rituale” dei buchi alle orecchie sulle convenzioni di genere nella nostra società? Secondo Adele Tulli, regista del documentario Normal che si apre proprio con la scena descritta sopra, si tratta di un episodio in cui emerge in modo plastico come l’individuo sia coinvolto in una continua negoziazione della propria identità di genere con la società. Conformarsi alle convenzioni sociali sul genere implica allo stesso tempo un sacrificio e una ricompensa (nel caso di Alma il dolore e la soddisfazione): il sacrificio legato alla negoziazione della propria identità per conformarsi alla “norma” e la ricompensa determinata dall’accettazione sociale che ne deriva.
Ma in cosa consiste questa “norma”? In altre parole: cos’è che la società definisce “normale”? Ed è possibile ribellarsi a tali convenzioni? Presentato fuori concorso (sezione Panorama) al Festival internazionale del cinema di Berlino, il film di Tulli (che oltretutto è la figlia di Serena Dandini) si propone di indagare queste tematiche, spingendosi oltre gli stereotipi di genere per esplorare l’idea di normalità e l’impatto che questa ha sull’individuo nel quotidiano. Il risultato è un film potente e necessario, un “mosaico di scene” raccolte in diverse parti d’Italia che invita lo spettatore a interrogarsi sull’eteronormatività del mondo che ci circonda.
Normal non segue una struttura narrativa specifica né si fonda su personaggi veri e propri, ma vive delle immagini che giustappone e delle associazioni che suggerisce, riducendo testo e dialoghi al minimo. Il motivo della crescita è l’unica linea narrativa presente, a sottolineare quanto l’obiettivo del film sia indagare come le “norme” di genere diano forma alle nostre vite dall’infanzia all’età adulta. Così passiamo dalla scena della gara delle minimoto riservata ai maschietti e ai rispettivi papà “assatanati” a bordo pista, a quella in cui le bambine si fanno truccare di rosa per assomigliare a delle principesse. Assistiamo poi alla fabbricazione di ferri da stiro e mini cucine-giocattolo rigorosamente rosa per le bambine e cassette per gli attrezzi con tanto di scritta “men at work” per i bambini. Nella sequenza successiva un’orda di teenager urlanti e commosse attende fuori da una libreria Mondadori di incontrare e idolatrare lo youtuber Antony Di Francesco.
Il film si avventura poi tra luna park e sale giochi in cui i maschi mettono in mostra la propria virilità e giocano alla guerra; corsi matrimoniali e negozi per abiti da sposa in cui alle donne viene insegnato come prendersi cura dei mariti; feste di addio al nubilato con torte a forma di pene e show di un illusionista che taglia a pezzi un corpo femminile. Improvvisamente ci ritroviamo al parco, in un corso di aerobica per neomamme in cui figli e passeggini vengono impiegati come attrezzi ginnici al comando dell’allenatrice. Esilarante è la scena del set fotografico nuziale in spiaggia, in cui una giovane coppia segue le istruzioni del fotografo mettendosi in pose imbarazzanti. Assistiamo poi alle selezioni di Miss Mondo: candidate che sognano di fare le scienziate si fanno esaminare in intimo da una commissione (composta quasi esclusivamente da uomini) che pone domande sul cv per poi chiedere: “Ce l’hai il fidanzato?”. E ancora vediamo modelle in abiti succinti ballare alle fiere di auto e moto mentre i visitatori uomini le filmano col cellulare in presenza di mogli e figli; gli stessi uomini che poi si dedicano a presunte attività da “maschio alfa” come distruggere una vecchia automobile a martellate.
Supportata da un preciso utilizzo della musica, la giustapposizione di tutte queste immagini genera ironia e crea nello spettatore un effetto di straniamento. Il mondo che ci si para davanti attraverso queste scene appare assurdo e grottesco, eppure si tratta proprio del nostro, un mondo in cui l’eterosessualità ci viene costantemente presentata come la “norma” e come tale ci viene imposta, implicitamente ed esplicitamente, dalla società nelle sue diverse declinazioni (le istituzioni, i media, la famiglia ecc.); una “norma” fittizia che tuttavia è determinante per l’accettazione sociale. Nel film di Tulli emerge con chiarezza quanto il gender rappresenti dunque una pratica collettiva e performativa che implica necessariamente una negoziazione o quantomeno un confronto con le convenzioni sociali, anche quando decidiamo di ribellarci: lo vediamo nelle numerose scene di gruppo del documentario in cui gli individui si muovono all’unisono, spesso accomunati da un determinato codice (per esempio il trucco) e guidati da un trainer (che si tratti di un prete, un’allenatrice o un genitore). Ed ecco che anche la scena dell’unione civile nel teatro di Ferrara che conclude il documentario non è da leggere come una semplice “alternativa” alle immagini che la precedono. La cerimonia si conforma infatti in tutto e per tutto alle convenzioni della nostra società eteronormativa. Così la regista sembra volerci mostrare come l’individuo si debba rapportare alla “norma” anche quando vuole sfuggirle e come l’eteronormatività della nostra società arrivi ben oltre il framework eterosessuale. Un finale aperto e spiazzante che piuttosto che formulare una tesi apre altri interrogativi.
Lo sguardo di Tulli non giudica ciò che sta osservando, alle risposte preferisce i quesiti, l’approccio non risulta mai pedagogico né accademico. Allo stesso tempo la regista non risparmia niente e nessuno, costringendo lo spettatore a porsi delle domande fino all’ultimo, domande giuste, necessarie e a volte scomode che mettono in discussione la nostra realtà e che purtroppo non ci poniamo mai abbastanza. Perché se non possiamo mai del tutto liberarci dall’idea di normalità e dalle convenzioni di genere stabilite dalla società, possiamo e dobbiamo imparare a riconoscerle e ad analizzarle nel nostro quotidiano.
Normal di Adele Tulli uscirà in Italia ad aprile 2019.