Con grande ritardo è stato finalmente trasmesso alle Camere, il 18 gennaio scorso, il rapporto che raccoglie i dati relativi alla legge 194. Stiamo parlando ancora dell’osservazione riferita all’anno 2017. Un ritardo, vale la pena precisarlo, che non è propriamente una novità.
Questa volta ci sono voluti però undici mesi e l’interrogazione parlamentare di Emma Bonino alla ministra della Salute Giulia Grillo perché fosse licenziata la Relazione che in premessa definisce il focus, puntandolo “sull’attuazione, a quarant’anni dalla loro entrata in vigore, delle Norme per la tutela sociale della maternità e per l’interruzione volontaria di gravidanza (IVG)”.
Non sappiamo quando arriverà il report relativo ai dodici mesi appena conclusosi, a questo punto. E ad ogni modo il documento dà conto di una nuova modalità di monitoraggio che parte proprio dal 2018. Si prevede che l’Istat acquisisca i dati delle indagini relativamente alla salute riproduttiva – e dunque includendovi anche i numeri sulle interruzioni volontarie – attraverso un’unica piattaforma web. Tempo stimato di messa a punto del nuovo sistema: almeno un biennio, a volere essere ottimisti.
Il quadro che emerge racconta un’Italia che continua ad arrovellarsi sul tema, che rimane tra quelli che dividono un Paese sempre più spaccato.
Alla base qui c’è ancora l’elaborazione delle informazioni aggregate dal Sistema di Sorveglianza Epidemiologica che coinvolge dal 1980 Istituto Superiore di Sanità, Ministero della Salute, Istat, Regioni e le due Province Autonome. In breve i risultati dell’indagine danno per confermato il trend in diminuzione delle interruzioni di gravidanza (dal 1983) che tradotto nei numeri significa 80.733 aborti volontari nel 2017 con un 4,9% in meno rispetto al 2016, statistiche comunque lontanissime dal picco raggiunto con i 234.801 casi del 1982.
Per dirla senza troppi giri di parole, gli aborti continuano a calare, anche fra le minorenni. E il documento sottolinea come ciò accada soprattutto in certe regioni, quali la Liguria, l’Umbria, l’Abruzzo ma anche la provincia di Bolzano.
Spiccano poi le differenze in una comparazione che consideri le realtà internazionali. Il dossier è chiaro “attualmente il tasso di abortività del nostro Paese è fra i più bassi tra quelli dei paesi occidentali”. Evidente la distanza tra Stati come la Svezia – dove il tasso di IVG praticate oltre la 12a settimana gestazionale è stimato nel 2017 al 20,0% con 37.000 interruzioni – e il nostro che si attesta al 7,5%. Dopo di noi solo la Germania e, in fondo alla tabella, la Svizzera che è al 6,2%.
Ma di cosa si tratta esattamente? Il tasso di abortività è un indicatore, anzi l’indicatore di maggior utilizzo, in quanto ritenuto il più accurato fra gli strumenti di indagine. Esso consegna oggi un risultato – aggregando dati tra tassi e rapporti di abortività nell’Italia tra il 1978 e il 2017, su donne tra i 25 e i 34 anni – che si attesta sul 6,2 per 1000.
Il documento fotografa poi ancora di più il dettaglio, stimando che le donne straniere che hanno interrotto la gravidanza sono state nel 2017 il 30,3%, un’incidenza in percentuale certamente maggiore delle nostre connazionali.
Se poi vogliamo capire cosa accade alle ragazzine, delle minorenni i numeri raccontano una diminuzione che è in tendenza con quanto succede sin dal 2004: 2.288 interventi che si stimano pari al 2,8% di tutte le IVG.
Rintracciare cosa vi sia dietro a questi primissimi dati è davvero difficile. Le argomentazioni costruite dal Ministero convincono poco o niente. Sollevano anzi sempre nuovi interrogativi, moltissimi. Come è possibile che sia l’aumento dell’uso della contraccezione d’emergenza ad aver risolto il problema degli aborti? Ma se la pillola del giorno dopo – come quella dei 5 giorni dopo – oggi non richiede più l’obbligo della prescrizione medica solo per le maggiorenni, come può questa argomentazione bastare a spiegare il calo delle interruzioni volontarie di gravidanza anche nelle ragazze sotto i 18 anni?
Oppure, può davvero far gioco in questo contesto l’aver investito – come dice il report – sul counselling per una procreazione responsabile, già nel percorso nascita, tanto da avere inciso sulla riduzione delle IVG?
Dei dubbi e delle perplessità che ronzano nella testa dopo quella disamina di numeri e statistiche parliamo con Elisabetta Canitano, ginecologa e presidente di Vita di donna associazione che ha sede presso la Casa internazionale delle donne di Roma e che si occupa di questi temi da sempre.
La sua premessa è già ermeneutica del dato: “Il tasso di abortività varia con il tasso di natalità, questo nei fatti. Le donne italiane fanno pochi figli e meno aborti di altre. Noi dovremmo chiederci quanti sono i figli casuali e non voluti, come fanno negli altri Paesi civili. C’è però che la componente cattolica di questo paese considera ogni gravidanza portata a termine per forza come un miracolo. Perciò, quelli, sono dati che non potremo avere mai”. E, continua “di fatto, la libertà di scelta delle donne non esiste, non possiamo sapere come e perché succedono le cose”.
E allora bisogna andare più a fondo. Sugli aborti clandestini? Quello, sembra un fenomeno destinato a restare nell’ombra. Ma qual è la situazione che quotidianamente incontrano gli operatori sanitari? E perché la relazione non ne parla, se non marginalmente?
Scopriamo che li definisce l’Istituto Superiore di Sanità con una rilevazione effettuata a partire dal 1983, ma con l’ultima stima che si ferma al 2012. Nel 2016 l’Istat mette a punto un nuovo modello di indagine, in grado di introdurre informazioni più aggiornate e più recenti sulla struttura della popolazione in età fertile, sulle tendenze della fecondità, sulla contraccezione. Ma il dato ufficiale sugli aborti clandestini rimane basato per espressa ammissione su stime che presentano “valori instabili” e che attestano quelle pratiche in un range che va dai 10.000 ai 13.000 casi. La relazione insomma si sente di confermare la bassa entità del fenomeno.
Ma per contro ci sono, anche qui, letture del tutto differenti del dato reale.
“È notizia di oggi – continua Elisabetta Canitano che è anche coordinatrice nazionale di Potere al Popolo – che una donna nigeriana è stata ricoverata per un aborto clandestino e multata per oltre 3000 euro. Noi non sappiamo nulla né degli aborti clandestini né degli aborti all’estero, tanto meno di come vengono trattate le donne che cercano di abortire. Non sappiamo niente dei viaggi disperati per gli aborti terapeutici e dei rischi che corrono le donne con aborto in atto fino a 22 settimane, trattenute negli ospedali religiosi a rischiare la vita”.
Per Filomena Gallo, Segretario dell’associazione Luca Coscioni le cose stanno più o meno nella stessa maniera. E la denuncia è, anche qui, durissima: “Tra obiezione di coscienza e chiusura dei consultori, le donne hanno paura di recarsi in struttura per l’interruzione di gravidanza e ricorrono così, tra mille pericoli, all’aborto clandestino”.
Insomma, quei dati dovrebbero almeno accendere un campanello di allarme. Ma di aborto si parla in Italia? Anche qui, l’avvocata è netta:“Io direi piuttosto che è un tabù sociale: le donne hanno ancora paura, in fondo, di essere giudicate su questo tema, per questo non riescono ancora a parlarne pubblicamente. Ci sono migliaia di storie che non sappiamo di donne che non hanno passato l’inferno per interrompere una gravidanza – che non significa aver operato questa scelta “alla leggera”: vuol dire semplicemente che alla riflessione ha fatto seguito un processo non traumatico”.
Ecco che la verità delle donne fatica a venire a galla. Da dove ripartire è chiaro, se solo guardiamo agli ostacoli che ogni giorno si trova dinanzi chi debba esercitare il diritto alla interruzione di una gravidanza.
Se la 194 è da sempre al centro di un fuoco incrociato, per la sua concreta attuazione ci sono spazi di miglioramento che sono praterie. Molti degli obiettivi li focalizza sempre l’associazione Luca Coscioni quando insiste perché siano garantiti la gratuità della contraccezione, unica ed efficace prevenzione del ricorso all’aborto; accesso alla contraccezione di emergenza senza obbligo di prescrizione anche per le minorenni; l’accesso alla IVG farmacologica, con un regime ambulatoriale che superi il ricovero ordinario; estensione della IVG farmacologica del I trimestre, da 49 ad almeno 63 giorni.
Certo, anche sui tempi la relazione ha una sua versione ufficiale dei fatti.
In quale momento della gestazione le donne decidano di interrompere volontariamente la gravidanza ce lo dice ancora a suon di statistiche. Quasi la metà degli interventi viene effettuato sempre di più entro le 8 settimane. Tra le giovani, tuttavia, l’asticella si sposta un po’ più in là e si arriva fino alle 12 settimane. I motivi, si adducono per lo più a “un ritardo al ricorso ai servizi, come avviene in generale per le donne di cittadinanza straniera” (relazione, cit.).
Poi, è ovvio, ci sono altri fattori presi in considerazione e che paiono poter incidere sulla decisione di abortire. Il rapporto non ci fa mancare ad esempio la riflessione sul livello sociale della donna: “in generale le straniere che hanno fatto ricorso all’IVG nel 2017 presentano una scolarizzazione più bassa rispetto alle donne italiane”.
Ma per una che decida di non portare a termine la gravidanza, la procedura qual è? Facciamo un po’ di chiarezza.
Quando si sceglie di far ricorso alla IVG ci si trova dinanzi intanto a una serie di luoghi deputati, a cui rivolgersi perché previsti dalla legge. Tra medico del consultorio familiare, struttura socio-sanitaria o medico di fiducia, quello a cui la donna si rivolge più comunemente è il primo. È così nel 2017, ma era così sin dagli anni 90. La relazione precisa, comunque, come ciò sia dovuto in parte anche all’apporto delle donne straniere che in maniera più massiccia si affidano a quella realtà.
Dopo gli accertamenti e i colloqui di rito, il rilascio di quello che impropriamente è chiamato “certificato”, dà una definitiva attestazione sia dello stato di gravidanza che anche della richiesta di IVG. La norma concede poi alle donne per la scelta ancora del tempo, imponendo un’attesa che è – di fatto e di diritto – invito a soprassedere. Sette giorni, trascorsi i quali quella potrà procedere con l’intervento.
Ecco che se il quadro è quello delineato dall’ufficialità del documento, qualcosa continua a non tornare.
Il passaggio che più di ogni altro interessa raggiungere, mentre si scorre il rapporto del Ministero della Salute, è certamente quello che misura l’offerta del servizio e soprattutto l’obiezione di coscienza.
Che sia innegabile la difficoltà per le donne di ogni età e condizione sociale di esercitare il diritto di aborto è fatto gravissimo, specie ove ciò accada anche o principalmente nelle strutture pubbliche e laiche, insomma non confessionali. E succede così da quarant’anni, ormai.
E anche questo è dato che va letto, ancora una volta, come una conferma. Se nel 2017 sono diminuiti gli aborti volontari, per contro si sono rilevati valori più alti di obiezione di coscienza tra i ginecologi. Sono il 68,4% quelli che seppur in strutture pubbliche non praticano le IVG. Gli anestesisti, invece, sono il 45,6%.
Ci domandiamo allora se esista una lettura corretta anche di queste informazioni, assunte dalla relazione a firma della ministra Grillo. Serve un’interpretazione che ci aiuti a comprendere appieno come impattino su quelle percentuali sia la disponibilità del servizio, ma anche il carico di lavoro degli operatori che invece obiettori non sono. E per farlo si guarda al parametro costruito dallo studio attorno al lavoro medio settimanale per ginecologo non obiettore. Il dato rimane stabile nel 2017, mentre sale sopra ai 9 aborti volontari per settimana solo in Sicilia e in Campania. Questo riferimento va letto unitamente a quelli dell’offerta del servizio IVG che viene valutata in relazione a tre componenti: numero assoluto di strutture disponibili, popolazione femminile in età fertile e punti nascita.
La relazione a questo proposito, senza parvenza di perplessità alcuna, dichiara la numerosità dei punti IVG come “più che adeguata”. Ancora sui consultori familiari, rileva che il numero dei colloqui resta superiore a quello dei certificati rilasciati, precisazione che chiarisce come non tutte le donne che si affidano alla struttura, si decidono poi per l’interruzione.
Cosa significhino e come vadano interpretate quelle conclusioni, continua a meritare dunque certamente un separato ragionamento.
È tra i numeri che bisogna sapere guardare, per scorgere tra le righe della relazione più di qualche incongruenza. Si guardi per esempio alla tendenza all’aumento del ricorso alla procedura d’urgenza, trend che si dà in crescita dal 2011 (specie in Puglia, subito dopo in Piemonte, poi nel Lazio, in Abruzzo, in Emilia Romagna e in Toscana). Questo, inspiegabilmente, coincide con il progressivo aumento tra le tecniche dell’uso dell’aborto farmacologico.
Eccola a questo punto un’altra evidente contraddizione. La relazione annuale qui sembra scoprirsi di più. E, mentre da una parte si preoccupa di salvare il sistema complessivo bollandolo come efficiente, dall’altra deduce che proprio l’aumento delle urgenze negli anni possa essere un indicatore di una serie di problemi. Liste di attesa, servizi disponibili per l’effettuazione dell’IVG nei tempi ordinari, sembrano dati ballerini. Come negare dunque che esista una questione di programmazione e, quindi, di risorse?
Ma, nei passaggi conclusivi, vi è pure di più.
L’estrema delicatezza nella interpretazione dei numeri che riempiono le tabelle di quella relazione, si rileva infine in maniera molto chiara. Il Ministero della Sanità dà notizia di come il numero dei non obiettori a livello regionale sembri congruo rispetto al numero delle IVG, “quindi – continua – gli eventuali problemi nell’accesso al percorso potrebbero essere riconducibili ad una inadeguata organizzazione territoriale”.
Come dire, i problemi ci sono, ma sono confinati nel limbo dell’eventualità. E la spiegazione, se si proprio vuole, la si trova. Il documento fa uno scatto e provando ad affinare il ragionamento rileva la disomogeneità sostanziale nelle diverse aree del paese come il male da debellare. Nelle conclusioni, il Ministero esprime – si presume con una certa soddisfazione, visto lo sforzo di far quadrare i conti – la ricetta per superare l’impasse: basterà uniformare i protocolli terapeutici, “al fine di assicurare un’offerta efficiente e di qualità (…) pur non evidenziando particolari criticità”.
Eccoli in definitiva gli esiti del lavoro atteso. Quali le ricadute è facile da intuire.
Le donne continueranno a subire un sistema che le ostacola nell’esercizio di un diritto, in maniera tanto evidente nella pratica quotidiana (spesso anche dove l’aborto sia necessità terapeutica e non solo scelta libera), quanto dissimulata nei numeri di una statistica che non riuscirà a dare risposte valide finché continuerà a negare il problema.
Elisabetta Canitano non pare farsi troppe illusioni e stando ai contenuti di quella relazione solleva un ultimo dubbio, quando dice che probabilmente “la ministra non sa di cosa parla e non vuole nemmeno saperlo”.