Lo scorso 11 ottobre si è celebrato il Coming Out Day, la giornata mondiale del coming out. Ormai tutti sanno che con questa espressione, intraducibile in italiano, ci si riferisce alla scelta da parte di una persona LGBT* di parlare pubblicamente del proprio orientamento sessuale. Un passo complicato, una delle poche scelte che nella vita si compiono in piena solitudine perché nel momento stesso in cui lo diciamo a qualcuno abbiamo già fatto coming out. Perciò è sempre stato difficile uscire dal guscio. Negli ultimi anni, tuttavia, le cose sono cambiate. Grazie anche all’evoluzione in tema di diritti LGBT*, argomenti come questo sono usciti dalla sfera privata, dalla chiacchiera in famiglia e tra amici e hanno avuto accesso alla comunicazione di massa e alle piattaforme generaliste, dando un impulso notevole al cambiamento. Ricordo ancora la prima volta che vidi la pubblicità dei Quattro salti in padella Findus Microonde e gustose sorprese. Non stavo veramente guardandola, ero a tavola con i miei ed ero essenzialmente distratto. Poi ho colto “Gianni non è solo il mio coinquilino, è il mio compagno…” ho strabuzzato gli occhi… ma davvero? Era il 2014. Ho subito pensato: che pacchia se fosse successo almeno quindici anni fa… avrebbe fatto davvero la differenza.
Ma cosa è veramente cambiato in questi anni? Cosa ha determinato questo cambio di impostazione nella comunicazione? Per comprendere appieno la questione ho deciso di parlarne con chi più di me conosce questo mondo e sono andato a fare due chiacchiere con Emanuele Nenna, presidente di Assocom (L’Associazione Italiana delle Aziende di Comunicazione) e ceo dell’agenzia di comunicazione The Big Now.
Le agenzie di comunicazione parlano a una generalità di persone a prescindere dalle loro idee e dai loro status. Può capitare di cadere negli stereotipi e proporre modelli sociali preconfezionati. Negli ultimi anni, però, sonos empre più frequenti campagne pubblicitarie e messaggi inclusivi in tema LGBT*. Cosa è cambiato e perché a tuo parere?
La comunicazione ha da sempre cavalcato gli stereotipi, perché semplificano la realtà, riconducendola a riferimenti condivisi con il risultato di far comprendere velocemente un messaggio. Per parlare alle masse la strada più rapida è utilizzare sintesi in grado di raggiungere tutti. La comunicazione pubblicitaria di massa, per questo, ha sempre contribuito al rafforzamento degli stereotipi predominanti, occupandosi difficilmente delle diversità. Faccio un esempio, a livello comunicativo se devo parlare di un prodotto per pulire casa è molto più semplice usare lo stereotipo della casalinga perché quell’immagine, pur riduttiva, richiama immediatamente un concetto conosciuto da tutti. Per questo, per molto tempo, il mondo pubblicitario si è limitato a riproporre questi format considerati vincenti. Tuttavia, a un certo punto, per fortuna abbiamo iniziato a stancarci degli stereotipi, o forse ci siamo resi conto che un’immagine omologata e piatta non era più ugualmente efficace di fronte a un pubblico più evoluto e poliedrico.
I brand hanno quindi iniziato a proporre soluzioni differenti e, prima timidamente, poi in maniera sempre più coraggiosa, si sono aperti all’evoluzione che stava subendo la società. Fortunatamente il mercato ha dato esiti positivi, numerose campagne hanno funzionato, e ai primi passi ne sono seguiti altri, sempre meno incerti.
Quali sono stati i motivi che hanno spinto a questo cambiamento e cosa l’ha reso vincente secondo te?
Il fatto di iniziare ad allontanarsi dagli stereotipi più abusati è un modo di seguire un trend di evoluzione già presente nella società. Se la società cambia il mondo della comunicazione non può ignorarlo. Ma visto che – purtroppo – il trend progressista rimane ancora molto sotto traccia, possiamo individuare una motivazione etica, soprattutto da parte di chi ha deciso di compiere i primi passi. Perché se è vero che la pubblicità rispecchia la società, è anche vero che è solo raccontando la società come vorremmo che fosse (e non per forza come già è) è possibile promuovere il cambiamento. Sicuramente oggi un elemento importante da tenere in considerazione è che nella maggior parte dei casi questo passaggio evolutivo della comunicazione ha funzionato ed ha portato risultati positivi ai brand più coraggiosi e pronti a prendere una posizione, smarcandosi dagli altri. Non possiamo dimenticare, infatti, che la comunicazione deve essere per le marche un investimento capace di generare ritorni economici.
Che ruolo ha un’agenzia di comunicazione in tutto questo e quanto pesa sulle scelte dei clienti?
Le agenzie hanno un ruolo fondamentale. Sono loro che, invitate a gare private da parte dei clienti, elaborano le idee creative tra cui il cliente sceglierà. Non sempre (e nemmeno spesso) nelle richieste esplicite del cliente c’è quella di raccontare qualcosa di nuovo, in termini di rappresentazioni della realtà e messaggi. Se sempre più agenzie iniziano a proporre idee più evolute, più lontane dagli stereotipi negativi, sempre più i clienti approveranno campagne belle e “giuste”. Non è una cosa da sottovalutare, per questo è importante fare formazione a chi elabora le idee ed è ciò che cerchiamo di fare ad Assocom.
Quindi un’associazione di categoria come Assocom ha un ruolo fondamentale nello stimolare un’evoluzione etica nei messaggi pubblicitari?
È quello che cerchiamo di fare attraverso la promozione di eventi, corsi e convegni. Le Aziende di comunicazione, come detto, sono consulenti e loro obiettivo è essere ascoltati. Se lavoriamo sulla sensibilizzazione degli operatori verranno elaborate campagne sempre più intelligenti con ricadute positive a livello sociale. Uno dei capisaldi di questa evoluzione è, ad esempio, l’uso del linguaggio. Quante volte ci è capitato di dire a un bambino “non piangere come una femminuccia”. Io stesso ho usato questa frase molte volte. Poi mi hanno spiegato che questa “innocua” affermazione contribuisce a perpetrare una mentalità culturalmente arretrata dove l’uomo è forte e duro mentre la donna è debole e deve essere protetta. I miei intenti non erano negativi ma ho acquisito una sensibilità nuova che non solo mi consentirà di adottare un linguaggio diverso ma di utilizzare quanto ho appreso nell’elaborazione di idee future. Una crescita in questo senso consente di realizzare campagne di comunicazione sempre più evolute.
Detta così è molto semplice ma poi immagino che lavorare con i privati sia più complicato. Non tutti saranno così aperti e comprensivi del cambiamento in atto.
Bisogna essere in grado di trovare la giusta chiave di lettura. Ci sono brand e brand, privati e privati. Il dovere di un’agenzia di comunicazione è cercare di stimolare una crescita culturale ma, allo stesso tempo, di mediare per trovare una soluzione che comunque vada in una direzione eticamente più evoluta. Una possibilità è quella di studiare campagne che non celebrino le diversità ma nemmeno le neghino. Se non celebro la famiglia cosiddetta “tradizionale” non significa che la sita negando. La parola chiave sta nel non esagerare ma trovare il giusto compromesso. In questo modo si aiutano anche i marchi più refrattari a progredire a poco a poco. Non bisogna però dimenticare che ci sono aziende che hanno una certa storicità che non può essere negata di punto in bianco. Si otterrebbe il risultato contrario con effetti dannosi per tutti.
Immagino che ci siano casi in cui nemmeno la mediazione funziona. In quel caso?
Semplicemente rifiutiamo il cliente. Con The Big Now ci è capitato più di una volta. Come detto le agenzie di comunicazione lavorano normalmente per gare. L’idea che viene presentata alla gara è sempre quella che l’agenzia considera migliore ma, anche se viene scelta dal cliente, non significa che vedrà la luce così come l’abbiamo pensata, anzi. Il cliente chiederà di modificarla dieci, cento, mille volte. Di volta in volta, attraverso un criterio di approssimazione cerchiamo di coniugare le richieste del privato con la nostra idea. Se il livello di approssimazione è troppo elevato e la nostra idea dovesse risultare irrimediabilmente modificata, rinunciamo all’incarico. Siamo professionisti e ciò significa anche prendersi le proprie responsabilità e i propri rischi.
Un’ultima domanda un po’ più maliziosa. Spesso i brand che decidono di promuovere campagne a favore dei diritti LGBT* vengono accusati di pink economy ossia di cercare di ripulire la propria immagine acquisendo visibilità. Cosa ne pensi?
Penso che stiamo comunque parlando di aziende, di realtà economiche e non di enti benefici. Al di là delle motivazioni etiche che possono spingere il singolo a promuovere un certo tipo di messaggio, un brand, nel suo complesso, non può prescindere dalla valutazione economica di quello che sta facendo. Se vogliamo fare una sintesi, i motivi che possono spingere un’azienda a investire su questo tipo di messaggio sono, a livello economico, due: il posizionamento nel mercato come aziende inclusive (si veda per esempio la campagna Nike) o la volontà di acquisire una certa fetta di mercato (tipico di aziende più piccole). Sono obiettivi economicamente essenziali per un brand e se, nel far questo, contribuisco a dare un messaggio socialmente più evoluto, dove sta il problema? L’importante è non farlo maldestramente.