Se ne discute da settimane, è diventata una questione che divide gli addetti ai lavori e non solo: è giusto “fare politica a scuola”? Tutto è nato da un tweet dell’attuale ministro dell’Interno, Matteo Salvini, il quale ha espresso la sua soddisfazione per la diminuzione degli insegnanti che “fanno politica a scuola”. Questa affermazione ha fatto emergere riflessioni sul tema e ha sollecitato alcuni docenti a rispondere. In particolare, un insegnante di Pordenone, Enrico Galliano ha messo nero su bianco i suoi pensieri a riguardo, attraverso una lettera aperta, indirizzata al Ministro: “La politica che faccio e che farò in classe non è quella delle tifoserie, dello schierarsi da qualche parte e cercare di portare i ragazzi a pensarla come te a tutti i costi. Non è così che funziona la vera politica. La politica che farò è quella nella sua accezione più alta”. Ma qual è il significato di politica, quello vero, scevro dal fardello di vizi e difetti che gli vengono attribuiti?
Il termine, dal punto di vista etimologico, deriva dal greco e riporta ad un concetto dimenticato, quello di arte e scienza. La politica è l’arte e la scienza del governare. Riguarda tutti, giacché ciascuno di noi è tenuto ad occuparsi, nelle proprie possibilità, della “cosa pubblica”, attraverso la partecipazione e la cittadinanza attiva, la manifestazione di comportamenti finalizzati al benessere della comunità, all’interesse della società in cui si vive. Sono principi e valori, questi, che valgono anche nell’istituzione scolastica, perché la scuola non è altro che una piccola comunità di persone, docenti e studenti che, con diritti e doveri, hanno insieme delle finalità uniche: la convivenza fondata sulla democrazia, il rispetto e la libertà di pensiero.
Per i docenti si tratta di “libertà di insegnamento”, diritto sancito dall’art. 33 della Costituzione italiana. In cosa consiste questa libertà e quali sono i suoi limiti?
“Ai docenti è garantita la libertà di insegnamento come autonomia didattica e come libera espressione culturale. L’espressione di tale libertà è diretta a promuovere, attraverso un confronto aperto di posizioni culturali, la piena formazione della personalità degli alunni”. La libertà di insegnamento è individuale e trova i suoi limiti esclusivamente nel dovere di tutela degli alunni, di rispetto delle regole di convivenza e nella non possibilità di fare propagande elettorali o proselitismo.
L’obiettività di un professore e di una professoressa, di ciascun docente, non si esplica attraverso l’apoliticità o l’assenza di senso critico, ma proprio attraverso l’espressione del suo pensiero, della sua cultura, del suo essere cittadino e operatore all’interno della società e attraverso il rispetto dei pensieri altrui, anche se opposti ai propri. La discussione culturale apre al confronto e al dialogo e, in senso lato, si potrebbe afffermare che la scuola stessa è fare politica, quando si occupa delle questioni sociali e umanitarie, quando forma i ragazzi all’apertura verso il mondo, all’aiuto verso chi ha bisogno, quando educa le menti alla riflessione, alla risoluzione dei problemi, quando fornisce gli strumenti adeguati, quando è inclusiva, accogliente, comunicativa. A scuola si insegna a pensare, a decidere, a convivere, ad accettare le idee differenti alle proprie. A scuola si impara a comprendere la fondamentale importanza delle regole, della partecipazione, dell’ascolto, dell’aiuto reciproco.
In fondo, educare e formare le nuove generazioni implica “essere dentro il tempo e lo spazio presente”. Una scuola chiusa al confronto, che non offre spunti di dialogo, di riflessione, di incontro, non è scuola; è sterile somministrazione di competenze. E le competenze, da sole, non bastano. O meglio, non completano la formazione di un uomo e di una donna.