Per una volta è la Silicon Valley a seguire l’Italia. Dopo anni di dibattito sull’efficacia delle quote di genere, discussioni sui pro e contro dell’introduzione delle quote e come gestire le (inevitabili) reazioni all’obbligo di aumentare di fatto il numero di donne nei board, due giorni fa lo Stato della California ha passato una legge che impone alle società quotate con headquarter in California di avere almeno una rappresentanza femminile nei consigli di amministrazione entro il 2019. Entro il 2021, poi, la nuova normativa richiede che le società quotate con più di cinque consiglieri abbiano almeno due consiglieri donne, e società con consigli di amministrazione composti da più di sei consiglieri, abbiano almeno tre donne nei loro board.
E’ la prima legge di questo tipo firmata negli Stati Uniti. Mentre le quote di genere sono una norma più comune in Europa, negli Usa si è sempre preferito pensare che la meritocrazia potesse risolvere ogni problema. E in teoria potrebbe essere vero, purtroppo in pratica però questo approccio non sempre riesce a incidere sui network di influenza e relazionali che spesso guidano la scelta dei consiglieri. Oltre un anno fa, in un intervento video per il Sole24Ore, avevo brevemente descritto “TheBoardlist”, una delle iniziative nate per promuovere la presenza delle donne sui board Americani. In quell’occasione avevo sottolineato la differenza tra un approccio legislativo italiano e un approccio più di network americano, lasciando aperta la domanda su quale dei due approcci potesse dare risultati migliori.
I primi dati del 2018 sono stati molto positivi, facendo segnare, con le 248 donne nominate sui board americani nei primi cinque mesi dell’anno, la più alta percentuale di crescita di presenza femminile nei board registrata negli ultimi dieci anni. Attualmente, in Usa, il 18% dei board delle 3000 più grandi società quotate è occupato da donne. E considerando il trend dei primi cinque mesi dell’anno, unito alle chiare indicazioni e pressioni espresse da investitori come Blackrock e Vanguard, ci si può aspettare che tale percentuale cresca per la fine dell’anno. Nonostante ciò, i consigli di amministrazione rimangono ancora un “Boys Club”. Dodici società tra le Fortune 500 non hanno neppure una donna nel board. Solo tre hanno gender parity fra i loro consiglieri. Anche le società che hanno presenze femminili nei cda, spesso non hanno un executive team gender balanced. In sintesi, pare che l’azione di queste iniziative spontanee e di network stia sortendo un impatto molto positivo, ma nonostante questo tanto lavoro rimane ancora da fare. Del resto, i cambiamenti culturali hanno tempi lunghi, spesso resi ancora più lunghi dalla tendenza alla “ricaduta” in atteggiamenti ossidati nella memoria istituzionale.
Con la legge firmata dal governatore Brown, la California prende una strada diversa dalla tradizione liberale americana e abbraccia l’approccio normative più europeo.
La nuova legge sulle quote rosa californiane prevede che le società che non adegueranno i loro board secondo i tempi e i termini della legge firmata da Brown potranno essere sanzionate fino a $100,000 per la prima violazione e fino a $300,000 per la seconda.
Fino a qui sembra una vittoria per le donne. Perche’ non penso che lo sia?
Questa legge fa parte di un pacchetto che il governatore Jerry Brown ha firmato per “proteggere e supportare donne, bambini e famiglie che lavorano”. Questa dichiarazione fatta dal governatore Brown a commento della firma della legge è molto importante, e per me incompleta. La legge, infatti, a mio parere, protegge soprattutto la corporate governance. E mentre sicuramente rappresenta un passo importante a supporto delle donne, mi spiace non avere trovato nelle parole del governatore della California il riconoscimento di studi ormai consolidati: la diversità di genere nei consigli di amministrazione migliora le dinamiche di board, aumenta la capacità di guardare i problemi da diversi punti di vista, incrementa la performance dei board. La profittabilità delle aziende con donne sui board è più alta. I dati lo indicano. In modo indubbiamente inconsapevole, il governatore ha reso questa vittoria del genere femminile un po’ meno facile da digerire, dal momento che la decisione non è stata giustificata con i risultati che di fatto sono già stati “certificati” da diversi studi.
Io non sono per le quote rosa a supporto delle donne fine a se stesse. Io sono a supporto delle quote rosa perché migliorano la corporate governance delle aziende. Se i dati dimostrassero che aggiungere donne ugualmente capaci e preparate ai consigli di amministrazione peggiorasse per qualche motivo la corporate governance, non sarei a favore delle quote rosa. I dati invece provano il contrario. Dunque, ha senso che ci siano donne nei board, come avrà senso che vengano garantite le quote azzurre se e quando le donne domineranno la presenza nei cda. E’ la compresenza della diversità che è una ricchezza per I board e che, come indicano i dati, è correlate a una migliore profittabilità aziendale.
La battaglia per la parità è lunga e non facile. Gli eccessi a volte servono per superare un ostacolo calloso. Preso atto di tutto ciò, e forse a costo di sembrare poco simpatica alle femministe, mi aspettavo qualcosa di meglio dalla California. Presentata comeè’ stata presentata, la legge sembra una banale legge di “preferenza di genere”. Invece c’è molto di più dietro questa legge. C’è un contributo a rendere la corporate governance di aziende quotate più solida ed efficace, grazie alla diversità. La vittoria che il governatore della California, secondo me, avrebbe dovuto celebrare è quella di una corporate governance migliore in uno Stato in cui Elon Mask twitta il presunto prezzo per delistare Tesla pari al numero simbolo della cannabis community per impressionare la fidanzata, e dove Unicorn companies che si preparano all’IPO hanno ancora come uno dei rischi difficili da controllare il “zip control” dei loro executive. La mancanza di diversità, la “bro culture” tipica dei boys club ha limiti non solo comportamentali, ma di capacitaàanalitica dei problemi. Avere donne sui board non è una vittoria delle donne. E’ una vittoria della corporate governance.