Fu un periodo pazzesco.
Talmente pazzesco che mi invitarono in televisione a raccontarlo. Era una trasmissione della domenica pomeriggio, su una rete nazionale, e io ero ospite in qualità di “mammo”. Avevo fatto presente alla cortese redattrice che mi contattò che non ero affatto un “mammo”, ma dalla redazione non avevano voluto sentire ragioni. Serviva un mammo, quella domenica pomeriggio. E sarei stato io.
Anche in diretta, me lo chiesero.
– Francesco, perché ti da così fastidio che ti chiamino “mammo”?
– Perché “mammo” è proprio una brutta parola. Basterebbe iniziare a dire bene “papà”.
(Applausi del pubblico)
A pensarci bene, però, non avevano tutti i torti, almeno a livello lessicale. Perché è questo che fai, a livello lessicale, quando ti trovi davanti ad un’eccezione, a qualcosa che non conosci, a qualcosa di nuovo: ti serve una parola per definirlo e gli dai un nome nuovo.
E il mio era “mammo”. Perché ero un maschio poco più che trentenne che invece di andarsene in ufficio tutti i giorni, lavorava freelance da casa e, nel tempo libero (si fa per dire…) si baloccava con pannolini e biberon, cacche e pappe. La cosa che mi stupiva – e che, a dirla tutta, mi stupisce ancora – era che io non consideravo la mia esperienza così unica ed eccezionale da meritare un nome nuovo. Mi sembrava che stessi facendo – soltanto – la cosa più naturale del mondo: stare con i miei figli. Stare con i miei figli appena nati, sempre, ventiquattro ore su ventiquattro.
Mi è successo due volte, con Riccardo prima e con Beatrice poi, tredici mesi per ciascuno di loro, finché non hanno preso la via dell’asilo nido e anche Veronica è tornata a lavorare.
Ho compreso fino in fondo la mia fortuna (e l’eccezionalità della mia esperienza) solo quando è diventato padre anche mio fratello e l’ho visto rientrare in ufficio tre giorni dopo la nascita di Dario. Lì ho capito davvero che non si trattava solo di pannolini e biberon, o di ore di sonno mancanti all’appello. Si tratta, in maniera molto più complessa ma altrettanto naturale, di entrare – da uomini – in una parte di vita dei nostri figli che la nostra società regala unicamente alle donne. Si tratta di stabilire un rapporto, anche e soprattutto fisico oltre che sentimentale, con i nostri figli quando sono appena nati. Impararne i ritmi, riconoscerne i pianti, entrare in una sintonia totale che, troppo spesso, ai padri è sconosciuta fino a quando i bimbi diventano più grandi e imparano a interagire con il mondo che li circonda e chi lo abita.
Io ho avuto la fortuna (e la voglia) di poterlo fare. E credo non lo cambierei con niente al mondo, perché ho la presunzione di pensare che quei ventisei mesi siano stati davvero il mattone su cui ho poi poggiato molto di quello che è venuto negli anni che li hanno seguiti. E perché se non fai un figlio per metterlo al centro del mondo, cosa lo fai a fare?
Ma io sono l’eccezione. Quello strano che fa un lavoro strano. La parola nuova da inventare.
Se questo fosse un Paese civile, sarebbero più numerosi gli uomini che si possono permettere un’esperienza come la mia. Nuova, sconosciuta, un’eccezione per la maggior parte dei papà che vedete in giro. Ma temo che, in questo caso, non basti inventarsi una parola nuova per dare il nome alla novità e farla diventare di tutti.
Temo che sia un problema culturale, non lessicale. Anzi no, il punto è esattamente quello: bisogna creare un nuovo lessico familiare.
Iniziamo con “paternità”?