Dai, puoi farcela, fatti avanti! Incoraggiare le persone a superare gli ostacoli può servire a farle sentire più forti ed è uno degli approcci più amati dalle scuole di management. In inglese si dice “empower”, in italiano si traduce con “dare il potere di”, o anche “abilitare”. Sin dall’uscita del noto libro di Sheryl Sandberg, numero due di Facebook, “Lean in” (in italiano “Facciamoci avanti”), incoraggiare le donne a fare un passo avanti è diventato uno dei messaggi chiave per vincere le discriminazioni sul mondo del lavoro. Tra il libro e il video TED del 2010 a esso dedicato (visto oltre 8 milioni di volte e spesso usato dalle aziende nei progetti di diversity), Sandberg fornisce una vera e propria ricetta per incoraggiare le donne ad alzare la mano, alzare la voce, avere fiducia in sé stesse. Il messaggio di fondo è: se il mondo non è a vostra misura, voi potete superare le barriere e avere successo comunque.
Che cosa non funziona, in un messaggio così?
Se lo sono domandato i ricercatori della Duke University, e hanno dedicato sei studi, coinvolgendo 2.000 persone, a verificare che differenza fa il messaggio di “Lean in” rispetto al ricevere dati oggettivi sulle condizioni del mondo del lavoro che mettono in difficoltà le donne (paygap, gestione dei carichi familiari, soffitto di cristallo e via così).
I risultati sono stati sorprendenti… e preoccupanti. I partecipanti esposti a messaggi di empowerment hanno infatti sviluppato la convinzione che le donne possano farcela, ma anche che sia una loro diretta responsabilità risolvere le discriminazioni di genere, o che siano addirittura loro stesse a causarli. Il quadro del “potercela fare” si traduce insomma nella percezione di una una specie di concorso di colpa, che porta a ignorare il peso delle condizioni di contesto e le responsabilità del sistema.
Secondo l’Harvard Business Review, che ha pubblicato i risultati della ricerca, l’approccio “che abilita” le donne genera un’illusione di controllo che non è realistica: è infatti dimostrato che le donne non possono, individualmente e direttamente, risolvere tutte le sfide che un sistema discriminatorio pone loro, e che è il sistema stesso a dover essere modificato.
Eppure avviene qualcosa di estremamente umano:
“Le persone non amano l’ingiustizia, e quando non riescono ad aggiustarla in modo semplice, fanno una ginnastica mentale per renderla più digeribile. Biasimare le vittime per la loro sofferenza è un classico esempio – i.e. quella persona deve aver fatto qualcosa per meritare ciò che le è successo”, hanno commentato i ricercatori.
D’altra parte, è chiaro che per le donne c’è poco di risolutivo e molto di provvisorio nel dover seguire una serie di istruzioni come:
Sii più assertiva
ma tieni basso il tono di voce
Chiedi un aumento di stipendio
ma fallo con dolcezza
Sii intelligente
ma non farti percepire come superiore
Mostra le tue qualità
senza essere intellettualmente intimidante
Sii ambiziosa
senza infastidire con eccessi di autostima
E vestiti bene
ma senza dare nell’occhio!
Come scrive la giornalista di Quartz Ephrat Livni:
Non possiamo assorbire messaggi faziosi che ci dicono che siamo noi a produrre – e quindi a dover risolvere – dei vizi generati dal sistema – e che possiamo deformarci al punto da entrare perfettamente in luoghi di lavoro che sono invece profondamente “sbagliati”.