I topi sono animali reietti, fastidiosi, per molte persone disgustosi. Nell’immaginario comune vanno sgominati, non importa se utilizzando il veleno per antonomasia, quello per topi appunto, che porta l’animale alla morte solo dopo atroci e lunghe sofferenze. Forse in passato abbiamo addomesticato i gatti proprio per avere dei poliziotti efficienti a disposizione, contro questi piccoli delinquenti delle credenze. Eppure i topi sopravvivono a tutte le nostre trovate: vivono nell’ombra, nascosti e pronti ad appropriarsi di un territorio in cui la presenza umana si faccia debole, non appena se ne presenti l’occasione. Non è per caso dunque che molti street artist inseriscano topi nelle proprie opere: il valore simbolico di questi animali si fa chiaro se si pensa che questi artisti sono a tutti gli effetti dei fuorilegge, costretti ad agire di nascosto e velocemente, quando non a darsi alla fuga senza completare il lavoro.
Salvo poi vedere le proprie opere ricoperte con un plexiglass per salvaguardarle dal deterioramento e dal vandalismo, come è successo per alcuni lavori di Banksy, uno degli street artist più noti in tutto il mondo. Creatore di alcune icone contemporanee, si può non aver mai sentito pronunciare il suo nome, ma è pressochè impossibile essere visivamente immuni alle sue opere: qualcuno si è spinto a definire la sua “Girl with balloon” una Gioconda contemporanea, considerando il grado di riproducibilità che ha raggiunto.
Chi è Banksy? A questa domanda abbiamo rinunciato a rispondere, come è giusto che sia, per rispettare l’anonimato scelto da un artista che ha definito l’invisibilità un superpotere. Molte le ipotesi sulla sua identità: probabilmente è di Bristol, probabilmente ha circa 40 anni, forse è un membro della band Massive Attack, forse è un collettivo di artisti, forse è Damien Hirst, con cui in effetti ha collaborato, forse è una donna. La vera domanda che dovremmo farci è: cosa vuole Banksy?
Negli scorsi giorni si è tornati a parlare di lui, dopo che sono state rinvenute a Parigi sette nuove opere attribuitegli e non smentite. In due casi si tratta palesemente di una critica alla posizione europea nei confronti dei migranti dall’Africa e Medio Oriente. Un tema che Banksy ha già affrontato nel 2016 e sempre in Francia, quando nel centro di accoglienza di Calais raffigurò Steve Jobs per ricordarci che era figlio di un rifugiato siriano, ma anche una reinterpretazione della celebre “Zattera della Medusa” di Gericault, nella sua versione terribilmente simile alle immagini dei naufragi nel Mediterraneo cui non dobbiamo abituare lo sguardo.
Lo scorso 27 giugno, giornata internazionale dei rifugiati, un inequivocabile messaggio è comparso nella periferia nord di Parigi, Porte de la Chapelle, vicino a un centro provvisorio di accoglienza. L’opera raffigura una ragazzina di colore intenta a coprire con una decorazione rosa una svastica nera. Nel giro di poche ore è stata vandalizzata con della vernice blu e dei restauratori sono intervenuti per proteggerla. Nello stesso arrondissement è comparsa una versione del “Napoleone che attraversa le Alpi” di David, in cui però il mantello dell’imperialismo si è avvolto totalmente attorno all’uomo accecandolo, soffocandolo, legandogli le mani.
A pochi passi dalla Sorbona, Banksy ha inoltre raffigurato un uomo elegante che nasconde una sega da falegname dietro di sé porgendo un osso a un cane con una zampa amputata. E nello stesso arrondissement, sempre rimestando nella ferita del capitalismo, un’immagine meno cruda ma più crudele: vediamo la scritta 1968, ma l’8 è caduto sulla testa di un topo rendendolo dannatamente simile alla Minnie disneyana. Proprio nel quartiere della Sorbona, Banksy viene a ricordarci il fallimento del maggio francese e di quel movimento globale che sembrava voler contestare le istituzioni sociali e politiche da cui invece si è lasciato poi docilmente assorbire.
La street art è nata nei quartieri multiculturali di New York, facendosi portavoce inizialmente di una risposta comune all’isolamento delle comunità etniche, attraverso l’elaborazione di un linguaggio grafico che era a tutti gli effetti una fusione di molte grafie. Una scelta esegetica forte nominare queste opere “graffiti”, a ricordarci le prime lallazioni segniche dell’uomo che si faceva animale sociale. È un tipo di arte che non ha mai perso la sua valenza politica, il suo essere portatrice di messaggi chiari, l’assenza di intellettualismi e di esercizi di stile per rimanere saldamente ancorata alla realtà della strada. La strada è il luogo in cui la satira si fa amara e dolorosa. Non c’è spazio qui per la derisione snob di chi ha una laurea in superiorità. La strada è fatta di bisogni immediati, sofferenze concrete. Ed è alla strada che Banksy e gli artisti come lui continuano a regalare le proprie opere, criticando ferocemente tutte le contraddizioni del nostro tempo e dissacrando quelle forme di potere di cui questi topolini solitari sembrano non avere nessuna paura.