Gli amministratori delegati delle 350 maggiori società quotate negli Stati Uniti hanno portato a casa nel 2016 una retribuzione media di 15,6 milioni di dollari. 271 volte la busta paga di un dipendente.
Non c’è altro modo di dirlo. Nei numeri sta la fotografia dell’evoluzione di una sperequazione crescente fra quanto riconosciuto per il lavoro a un ceo e quanto a un “normale” dipendente. In proporzione, s’intende. Un altro paio di numeri possono darci un quadro più preciso: dal 1978 ad oggi la retribuzione dei ceo è cresciuta del 940 per cento. Non solo: questo incremento è stato molto più veloce della crescita del mercato azionario, secondo i dati analizzati dall’Economic Policy Institute.
In soldoni, negli ultimi 40 anni i ceo hanno visto crescere i loro guadagni molto di più di quanto siano cresciute le imprese (in termini di titoli in Borsa e utili realizzati) che hanno guidato. E il grafico qui sopra lo rende evidente. A commento dei dati nel report si legge:
L’esorbitante remunerazione dei ceo significa che i frutti della crescita economica non stanno andando al lavoratore ordinari, dal momento che i salari più alti dei ceo non corrispondono a risultati più alti per le imprese che guidano. I compensi dei ceo sono aumentati dell’807 o del 937 percento (a seconda che si considerino le stock options concesse o le stock option realizzate, rispettivamente) dal 1978 al 2016. Il 937% è un aumento del 70 percento più veloce rispetto all’aumento dei titoli in Borsa; entrambe le misure sono sostanzialmente maggiori della crescita dolorosamente lenta dell’11,2% del salario annuo di un lavoro tipo per lo stesso periodo.
Ma come si spiega tutto questo? Per l’Economic Policy Institute la risposta è semplice: “Ciò significa che gli amministratori delegati stanno ottenendo di più grazie al loro poterenello stabilire le retribuzioni e non perché sono più produttivi o hanno un talento speciale o hanno una formazione scolastica superiore. Se i ceo guadagnassero meno o fossero tassati di più, non ci sarebbe alcun impatto negativo sulla produzione o l’occupazione”.
Da qui, quindi, ci si dovrebbe muovere per ristabilire un equilibrio nei compensi, ricordando che il successo e i risultati di un’azienda sono il frutto di un lavoro collettivo. Un famoso allenatore di una nazionale italiana a un convegno disse: quando vinciamo vado a stringere la mano anche a chi si occupa delle divise o della logistica della squadra. Il risultato dipende dal lavoro di tutti”. E’ un concetto così semplice eppure così ignorato: non bastano le grandi strategie (quando ci sono) per portare un’azienda a macinare utili. Serve ogni ingranaggio che porti quelle strategie a diventare relatà.
Un salario di 940 volte superiore a quello del proprio dipendente, non solo non è fair dal punto di vista professionale, economico e industriale. Non è eticamente corretto. Poi conta poco assumere atteggiamenti di egualitarismo, come andare a mangiare alla stessa mensa degli operai o bere il caffè alla macchinetta del corridoio con i dipendenti chiedendo novità su famiglia e figli.
In questo contesto naturalmente fanno notizia quesi titolari che, invece, decidono di premiare i propri dipendenti con bonus extra come nel caso di Spea, azienda tecnologica del torinese che mette a punto quei macchinari che collaudano i sensori degli Iphone X e quelli dei pace maker (uno stipendio in più per 520 dipendenti a fronte di un fatturato cresciuto del 16% nel 2017), oppure come nel caso di Duemmei di Santarcangelo (Rimini) che produce con il marchio ‘Mr & Mrs Italy’ (da un mese a un anno di stipendio per i dipendneti a seconda dell’anzianità). Meritevoli, certo, ma non si può lasciare alla “sensibilità” dei singoli il riequilibrio delle remunerazioni. Per questo i governi e le istituzioni dagli Stati Uniti all’Europa stanno implementando misure per calmierare i compensi dei manager. Un tema che forse dovrebbe essere anche all’ordine del giorno degli azionisti, sempre più attivi soprattutto per le società quotate.