Il cavallo di battaglia del Movimento Cinque Stelle, che dopo il voto del 4 marzo si è rivelato il primo partito italiano e il primo gruppo parlamentare (con 227 deputati e 112 senatori), poggia su un equivoco lessicale e semantico: lo hanno chiamato “reddito di cittadinanza” nella proposta di legge n. 1148/2013 a prima firma Nunzia Catalfo (senatrice M5S appena rieletta), ma non lo è. Non è una forma universale di sostegno al reddito, legata al solo requisito della cittadinanza, come erogata ad esempio in Alaska (1.100 dollari nel 2017). È invece, come tiene a precisare in ogni occasione Pasquale Tridico, ministro del Lavoro ombra dei Cinque Stelle e docente all’Università di Roma Tre, un «reddito minimo condizionato». A cosa? Innanzitutto, ma non solo, alla ricerca attiva di un lavoro attraverso l’iscrizione ai centri per l’impiego, opportunamente riformati.
Che cos’è
Il sostegno economico previsto dal Ddl Catalfo ammonta a 780 euro netti al mese per la singola persona sotto la soglia di povertà, fissata in 9.360 euro l’anno. Nel caso in cui percepisse già un reddito, gli spetterebbe la differenza tra 780 euro e l’entrata mensile già percepita. Se il nucleo familiare fosse più numeroso, il reddito sarebbe calcolato in funzione del numero di persone che lo compongono. Se la famiglia fosse dunque composta da due persone, avrebbero diritto a percepire un minimo di 1.014 euro e un massimo di 1.170. Se fosse composta da tre, il sostegno sarebbe di un minimo di 1.248 euro e un massimo di 1.560 euro. In caso di quattro componenti, si va da minimo 1.482 euro a massimo 1.950. E così via. Una fotografia accurata del funzionamento della misura e delle aspettative dei cittadini è contenuta nel volume “Redditanza. Il reddito di cittadinanza raccontato dai giornali e percepito dai cittadini” di Nicola Ferrigni e Marica Spalletta, edito da Gangemi Editore.
I beneficiari
I destinatari del reddito minimo condizionato sono i cittadini italiani, comunitari o provenienti da Paesi che hanno firmato trattati con l’Italia per garantire diritti sulla sicurezza sociale, maggiorenni, inoccupati o disoccupati, che percepiscono un reddito inferiore alla soglia di povertà, l’indicatore di povertà ufficiale dell’Unione europea, pari ai sei decimi del reddito mediano equivalente familiare: per l’Italia è stata fissata in 9.360 euro l’anno (780 euro netti mensili), prendendo come riferimento il valore mediano del reddito – la linea mediana di reddito raggiunta da metà delle famiglie – stabilito nel nostro Paese da Eurostat nel 2013 in 15.514 euro. Sei decimi di 15.514 euro sono appunto 9.360 euro.
Le condizioni
Non essendo una misura universale, nella proposta M5S chi riceve il reddito deve rendersi disponibile a una serie di azioni:
• iscriversi presso i centri per l’impiego pubblici (sono esonerati, però, le madri o in alternativa i padri con figli minori di tre anni, i disabili e i pensionati, per i quali i Cinque Stelle e lo stesso Luigi Di Maio parlano di “pensione di cittadinanza”);
• iniziare un percorso di formazione o di riqualificazione e un percorso di ricerca attiva di lavoro, insieme agli operatori dei servizi per l’impiego che sono tenuti a effettuare uno o più colloqui, certificare le competenze, rilevare le attitudini del beneficiario;
• dimostrare di essersi attivato nella ricerca di lavoro (quindi frequentare i centri per l’impiego, frequentare corsi di formazione e riqualificazione);
• offrire un contributo alla collettività sotto forma di massimo otto ore settimanali da dedicare a progetti sociali organizzati dal Comune di residenza (pensionati e disabili sono esonerati);
• comunicare tempestivamente eventuali variazioni del reddito. Il diritto al reddito minimo si perde, infatti, quando il beneficiario riesce a percepire una cifra mensile superiore a 780 euro netti, quando non adempie agli obblighi previsti, quando rifiuta più di tre proposte di lavoro «ritenute congrue» (ovvero attinenti alle propensioni e alle competenze certificate) e quando si licenzia senza giusta causa dal lavoro per più di due volte l’anno.
La riforma dei centri per l’impiego
È evidente che il presupposto necessario perché una misura del genere possa essere efficace è il buon funzionamento dei centri per l’impiego, pubblici e privati, la cui riforma va considerata la prima gamba dell’intero progetto. Si immagina infatti che siano loro a ricevere le domande con la documentazione (un’autodichiarazione che attesti i redditi percepiti negli ultimi dodici mesi nonché copia della dichiarazione Isee legata soltanto al reddito). E non è un caso che sono stati loro i primi a cui i cittadini in questi giorni si sono rivolti per chiedere informazioni, seppur non nelle dimensioni dell’”assalto” che si sono scorrettamente diffuse. La proposta Cinque Stelle prevede che i centri per l’impiego vengano collegati, attraverso una struttura informatica centralizzata, sia con i ministeri sia con l’Agenzia delle Entrate per garantire tutti i controlli utili ad accertare che i beneficiari abbiano tutti i requisiti previsti dalla legge.
I costi
Secondo i calcoli M5S, avvalorati dall’Istat, il costo per il primo anno è di quasi 17 miliardi di euro, di cui 2,1 per la riforma dei centri per l’impiego e 14,9 per gli assegni. Il peso sarebbe dunque pari all’1% del Pil e al 2% della spesa pubblica, ma per il M5S si tratta di una vera «manovra per la crescita» capace di far aumentare la domanda interna dal 4 al 22%, i ricavi delle piccole e medie imprese, la domanda di lavoro di personale qualificato. Lo Stato, in questa visione, beneficerebbe di maggiori entrate dirette e indirette e vedrebbe accrescere il prodotto interno lordo abbattendo il rapporto debito/Pil.
Ma non tutti sono d’accordo con le stime del Movimento. Gli economisti Massimo Baldini e Francesco Daveri su lavoce.info sono convinti che il “reddito di cittadinanza” costi in realtà 29 miliardi (di quasi 30 miliardi aveva parlato anche il presidente Inps Tito Boeri in un’audizione in commissione Lavoro al Senato), perché l’Istat nella sua simulazione aggiunge al reddito disponibile monetario il valore dell’affitto imputato dell’abitazione posseduta dalla famiglia, che è una stima del canone che si riceverebbe se la casa di proprietà (comune anche in molte delle famiglie povere) fosse data in affitto. Peccato che i criteri Eurostat cui allude esplicitamente il Ddl Catalfo non lo facciano. Il risultato è una sottostima delle famiglie sotto la soglia di povertà e, di conseguenza, del costo, che invece sarebbe di 15 miliardi in più.
Le coperture
La tabella delle coperture viene aggiornata di volta in volta dai tecnici del Movimento e puntualmente contestata da chi non la ritiene verosimile. Secondo l’ultima diffusa dal Sole 24 Ore lo scorso maggio, 2,5 miliardi verrebbero da tagli alla spesa della Pa centralizzando gli acquisti, altrettanti dall’impopolare divieto di cumulo pensionistico tra redditi da lavoro autonomo e dipendente e da tagli a dividendi e partecipazioni Bankitalia e a organi costituzionali, 5 miliardi dalla riduzione delle detrazioni per i redditi più alti, altri 2 miliardi dall’aumento della tassazione su banche e assicurazioni (riducendo la quota di deducibilità degli interessi passivi), 1,5 miliardi dall’attuale Fondo per il sostegno alla povertà, altri 1,5 dall’aumento dei canoni alle multinazionali di gas e petrolio per le trivellazioni, un miliardo dall’aumento delle tasse sul gioco d’azzardo. Altri fondi verrebbero dalla soppressione del Cnel e di altri enti (ma per la prima serve una riforma costituzionale, come quella bocciata pure dal M5S il 4 dicembre 2016) e da altre scuri su sprechi e privilegi.
Difficile, in ogni caso, che se il M5S dovesse andare al governo possa mandare subito a regime il reddito di cittadinanza. Molto più facile che riesca ad avviare la sola riforma dei centri per l’impiego.
Vantaggi e rischi
Il vantaggio della proposta pentastellata è chiaro: consentire alle persone temporaneamente in difficoltà perché hanno perso il lavoro o non lo trovano di non essere abbandonate a se stesse. «Nessuno deve rimanere indietro», è lo slogan. Particolarmente efficace in un Paese in cui i poveri sono diventati 8,5 milioni (4,7 milioni le persone in condizioni di povertà assoluta, 8,4 quelle in “povertà relativa”) e in cui la crisi ha acuito le disuguaglianze (secondo il rapporto Oxfam in Italia nel 2017 il 40% della ricchezza nazionale netta è appannaggio del 5% più ricco). Ma i rischi dell’introduzione di un reddito minimo, seppur condizionato, sono alti: per il disincentivo al lavoro nei confronti di coloro che svolgono mestieri usuranti con salari vicini all’assegno, per il pericolo di opportunismo e per l’eventualità che la platea di beneficiari possa essere sottovalutata. Rendendo la proposta ancora più insostenibile di come già non appaia ai suoi detrattori.