«Ogni mattina mi alzo verso le 6 per mungere le capre. Poi lascio gli animali liberi di pascolare, preparo il pranzo e rassetto la yurta. Nel pomeriggio raccolgo lo sterco dei cammelli che serve per accendere la stufa e pulisco le yurte degli ospiti»: con queste parole Gerelmaa ci racconta la sua giornata tipo. Nel tono della sua voce si avverte un leggero imbarazzo, ma l’espressione del suo viso è consapevole e risoluta. Nata nel 1974 a Tsogtovoo, città nella regione del Gobi meridionale, Gerelmaa è la prima delle donne nomadi che incontriamo lungo l’itinerario del nostro viaggio in Mongolia. Sono sempre loro ad accoglierci nelle yurte (in mongolo ger, le tende tradizionali a forma circolare), ad offrirci tè al latte e a lasciarci entrare, sempre con rispettosa cautela, nelle loro vite. Sono donne dalle spalle larghe Gerelmaa, Oyunbileg, Adiyasuren, Nergui, Pagamdulam e Tserenlkham; donne che organizzano la propria quotidianità in base ai tempi della mungitura e del pascolo, che assistono i mariti in caso di malattia, che partecipano attivamente alla vita della comunità, che gestiscono i risparmi affinché i figli possano ricevere un’istruzione. Donne che non abbassano lo sguardo nonostante quella mongola sia una società di stampo patriarcale e l’equità di genere sia ancora lontano dall’essere raggiunta.
Mamma di quattro figli e cinque volte nonna a soli 44 anni, Gerelmaa ha sempre vissuto nella regione del Gobi meridionale, un’area desertica, remota e ostile all’insediamento umano. Le yurte della sua famiglia sono letteralmente immerse nel nulla: per chilometri e chilometri soltanto terra, rocce e qualche sporadico ciuffo d’erba. «Prima ci spostavamo quattro volte l’anno, all’inizio di ogni stagione, ora soltanto due, in autunno e in primavera, rimanendo sempre nell’area» racconta Gerelmaa mostrandoci il solco lasciato a terra da una yurta appena smontata. A settembre i nomadi sono soliti spostarsi verso aree adatte a trascorrere i mesi più rigidi dell’anno, il che implica “impacchettare” le proprie yurte e con esse le proprie vite. «Non ho mai pensato di trasferirmi in città. Senza un diploma scolastico non troverei lavoro e poi preferisco vivere a contatto con la natura. Da qualche tempo mio marito non può fare sforzi a causa di una malattia al fegato. Per me le incombenze sono aumentate, ma la mia vita è questa e non potrei immaginarla diversamente» spiega Gerelmaa mentre la osserviamo allineare le capre per la mungitura con sorprendente abilità. Quando ci parla dei suoi figli è impossibile non intercettare una nota di orgoglio, anche se ben mascherata dalla riservatezza che la contraddistingue: «Il mio ultimo figlio è rimasto qui ad aiutarmi, mentre le tre femmine vivono lontano. La più grande è insegnante di scuola elementare a Tsogtovoo, le altre due studiano all’università di Ulan Bator».
Anche i cinque figli di Oyunbileg hanno ricevuto un’istruzione accademica: «Si sono laureati in economia, matematica, chimica, agraria e ingegneria edile» racconta la madre, 54 anni, mentre ci porge una tazza di tè al latte nella sua yurta montata all’ingresso del parco nazionale della Valle del Gipeto. La tenda è dotata di pannelli solari, televisore e telefono. C’è anche il frigorifero, un prezioso aiuto per la conservazione del cibo. La Valle del Gipeto (in mongolo Yolyn Am) rappresenta una delle rare oasi nella vasta e arida distesa del Gobi. Qui il turismo è una delle principali fonti di sostentamento per le famiglie nomadi locali, perlomeno nella stagione estiva. Anche Oyunbileg e il marito non fanno eccezione: «Viviamo qui da 15 anni. Mio marito è falegname e scultore: durante la stagione turistica vende le sue opere ai visitatori del parco. Io lavoro al museo naturale. I nostri figli invece dopo gli studi sono rimasti in città».
Lo spostamento nei centri urbani è diventato una costante per le nuove leve di molte famiglie nomadi. Ce lo conferma anche Adiyasuren, che incontriamo nei pressi delle dune di sabbia (in mongolo Khongoryn Els). La sua è una yurta tutta al femminile e plurigenerazionale: al nostro arrivo Doljav, la madre 84enne di Adiyasuren, le cui fattezze fanno pensare a origini kazake, sta giocando con la piccola Aruintsetseg (tradotto “fiore puro”), 2 anni, figlia di un’amica. Non c’è traccia dei quattro figli della padrona di casa: «Tre di loro vivono a Ulan Bator. Il più grande lavora come editore, mentre gli altri due studiano all’università. Soltanto il mio secondo figlio è rimasto ad aiutarmi» spiega Adiyasuren. «Siamo allevatori da generazioni. Ho imparato il mestiere dai miei genitori. Il nostro bestiame comprende capre, pecore e cammelli, da cui ricaviamo latte, formaggio e airag (latte fermentato ndr)» conclude mostrandoci i vassoi dei prodotti caseari che essiccano al sole sul tetto della yurta.
Man mano che ci allontaniamo dal Gobi per addentrarci nella Mongolia centrale, le tonalità terrose del deserto cedono il passo a quelle verdeggianti di steppe e foreste. La yurta di Nergui è uno dei tanti puntini bianchi che costellano la lussureggiante Valle di Orkhon. Dal tetto vediamo innalzarsi una colonnina di fumo, l’aria profuma di legna bruciata: all’interno Nergui, 57 anni, sta preparando i buuz, ravioli farciti con carne di pecora; sul tavolino basso e variopinto posto in mezzo alla yurta ci aspettano un thermos di tè e una ciotola di öröm, una crema spalmabile a base di latte. Per gran parte dell’anno Nergui vive sola, mentre il marito e un figlio si occupano del bestiame a qualche chilometro di distanza. «Qui non possiamo tenere animali. È una regola della nostra comunità» spiega la padrona di casa riferendosi ad Hamtiin Nuhurlul, una sorta di organizzazione collettiva di stampo sovietico: «Siamo 10 famiglie nomadi. Abbiamo un leader, una cassa comune e riunioni mensili». La comunità è diventata la nuova famiglia di Nergui dopo che quattro dei suoi cinque figli hanno deciso di abbandonare il nomadismo per la città: «Tre maschi vivono e lavorano a Ulan Bator, la femmina nell’Arhangaj» racconta Nergui manifestando apertamente la propria soddisfazione. E pensare che la sua esistenza sembrava essere iniziata sotto una cattiva stella. Nergui ci racconta la storia del suo nome: «Letteralmente significa “senza nome”. Quando sono nata i miei genitori stavano attraversando un momento particolarmente difficile. La tradizione vuole che in questi casi, per impedire la continuità del dolore, al bambino non venga assegnato un nome specifico. Per la cultura mongola il nome del nascituro è infatti parte integrante del suo destino e deve essere quindi scelto con estrema cura».
Quando si è trattato di scegliere il nome del suo bambino, anche Pagamdulam ha pensato al futuro: «Temujin era il vero nome di Gengis Khan. Spero che possa infondergli coraggio, forza e buonsenso» ci dice. In effetti il bambino a soli 3 mesi sembra già godere di questi auspici: senza mai “protestare” accompagna la mamma in tutte le sue occupazioni, anche fuori dalla yurta, quando la temperatura è tutt’altro che mite. Pagamdulam vive ai piedi dei monti Hangaj e all’inizio di ogni stagione smonta la sua yurta e si sposta, insieme al marito e al bimbo, verso una zona più favorevole. Mentre la donna è alle prese con la preparazione dell’imminente “trasloco”, Temujin, avvolto in una coperta, la segue con gli occhi da un divano. Accanto a lui sonnecchia il papà, visibilmente sfinito dalla vodka. È da poco tornato dalla città, in sella alla sua motocicletta che ha abbandonato all’ingresso della yurta.
Anche Tserenlkham, 83 anni, ha qualcuno da accudire. Si tratta del marito Byambatseren, 86 anni. Quando facciamo la loro conoscenza, lui riposa sdraiato sul letto, completamente vestito dell’abito tradizionale mongolo. Tserenlkham invece traffica intorno alla stufa, intenta a preparare il pranzo. Nella sua ger sulle rive del Lago Bianco (in mongolo Terkhiin Tsagaan Nuur) si muove con agilità, nonostante la sua schiena sia molto incurvata: «Viviamo qui da 63 anni. Io sono originaria della provincia settentrionale di Hôvsgôl, al confine con la Siberia, dove ho conosciuto mio marito, che invece è di queste zone» ci dice Tserenlkham prima di venire interrotta dal marito che vuole aggiornarci sulla peggiorata condizione delle acque del Lago rispetto agli anni della sua giovinezza. Tserenlkham non gli presta attenzione e continua: «Abbiamo dieci figli e più di venti nipoti. Il numero esatto non me lo ricordo nemmeno. Ringraziando il cielo, ora che non sono più giovane, posso contare sull’aiuto della mia famiglia, ma non mi sento ancora da buttare». Mentre Tserenlkham racconta, una delle figlie entra nella yurta con un fascio di legna e lo depone dietro la porta. Tserenlkham si interrompe e la invita a spostarlo accanto alla stufa: ogni cosa al suo posto.
Le interviste sono state realizzate grazie alla collaborazione di Munkhsaikhan Munkhbaatar.
Tutte le foto © Gloria Reményi