La retribuzione dovrebbe essere un mix efficace di una serie di elementi interconnessi tra loro. Il primo in ordine di importanza è l’equità, intesa sia da un punto di vista interno all’azienda (nel senso che salari e aumenti devono essere stabiliti in base a merito e competenze), sia da un punto di vista esterno rispetto al mercato del lavoro (e quindi al salario medio di quel ruolo). Questo in teoria. Nei fatti però le cose stanno diversamente, soprattutto per i giovani italiani, le cui retribuzioni si collocano nettamente al di sotto della media europea.
Secondo una ricerca della società di consulenza Towers Watson, in Italia i giovani laureati ha una retribuzione lorda di ingresso pari a 27mila euro. E questo quando il giovane laureato in questione è non solo fortunato, ma fortunatissimo. In generale, il report punta il dito contro il divario tra il nostro Paese e il resto d’Europa. In Italia, infatti, gli stipendi dei giovani che entrano nel mondo del lavoro sono inferiori del 70% rispetto a quelli tedeschi, del 55% rispetto a quelli inglesi e del 44% rispetto a quelli austriaci. Persino i giovani belgi e francesi se la passano: in questo caso il divario è rispettivamente del 38% e del 24%. Peggio di noi fanno solo Spagna e Portogallo. Certo, andando avanti con gli anni di lavoro, questa differenza tende a livellarsi, confermando la tendenza tutta italiana a premiare l’esperienza e “l’anzianità”.
Ancora peggio se la passano i giovani non laureati. Sempre secondo i dati raccolti da Towers Watson, sembra che chi ha frequentato l’università riesca ad ottenere un salario del 45% superiore a chi si è fermato alle scuole superiori. Un divario pesante se si tiene conto delle cifre già molto magre che guadagnano le ragazze e i ragazzi che invece hanno deciso di proseguire negli studi.
Questo scenario e queste numeri raccontano un Paese profondamente diviso: da una parte chi ha accesso a bonus, welfare e stipendi dignitosi, e dall’altra chi una retribuzione equa non sa nemmeno cosa sia. Parlare di giovani e lavoro ci obbliga perciò ad allontanaci dalle statistiche e dai numeri che raccontano solo un pezzo – spesso quello più fortunato – di questa realtà. Una realtà fatta spesso di storie di discriminazione di genere, di lavoro nero, di sfruttamento, di mancato pagamento dei contributi, e di molte altre piccole e grandi vergogne nazionali.
È naturale quindi che, come dicono i dati Istat, siano proprio i giovani quelli meno soddisfatti della propria condizione economica. Una condizione talmente fragile e precaria che non consente progetti di vita e che spinge molti ad andare all’estero. È in queste scelte, più che nei numeri e nelle statistiche, che si possono leggere infatti le aspettative – spesso disattese – dei giovani rispetto al mondo del lavoro.
L’antidoto? Politiche retributive eque e motivanti che spetta alle aziende più competitive e responsabili implementare diventando un modello per tutte le altre.