“Gli smartphone hanno distrutto una generazione?”. Con questa domanda provocatoria la psicologa Jean Twenge apriva l’articolo di qualche settimana fa sul The Atlantic, nel quale forniva un’anticipazione del suo libro, appena uscito, dal titolo iGen. Perché i bambini di oggi, iperconnessi, stanno crescendo meno ribelli, più tolleranti, meno felici – e completamente impreparati per l’età adulta – e cosa questo significa per tutti noi.
Nel libro si parla della generazione iGen, ossia dei nati tra il 1995 e il 2012, le cui capacità mentali si sarebbero ridotte e il cui cervello sarebbe stato “prosciugato” (brain drain) dagli smartphone. Fenomeni quali l’assenza di ribellione, una maggior tolleranza, ridotte interazioni sociali, anche di tipo sessuale, derivano secondo l’Autrice da un massiccio utilizzo degli smartphone, fonte di infelicità e disadattamento. L’avvento dello smartphone, questa in sintesi la tesi della Twenge, avrebbe non solo modificato ogni aspetto della vita dei teenager, ma li starebbe anche uccidendo, visto il drammatico incremento nella diffusione di disturbi psicologici, in particolare depressione e suicidio.
A partire dall’articolo del The Atlantic molto è stato scritto, facendo rimbalzare l’anatema di Twenge verso gli smartphone su siti, giornali, social e blog di tutto il mondo. Di fronte ad alcuni di questi articoli, citando Nanni Moretti, verrebbe da dire: “No, il dibattito no!”. Vorrei però utilizzare quest’occasione per riflettere su alcuni passaggi dell’articolo e sul rischio di cedere a pericolose semplificazioni.
Twenge fa coincidere l’aumento delle difficoltà psicologiche degli adolescenti con l’avvento degli smartphone (a partire dal 2007). E’ importante, però, precisare che la comunità scientifica da decenni, dagli anni 80’ e 90’, ossia ben prima dell’avvento di smartphone e iPad, si interroga sulla diffusione dei disturbi mentali in adolescenza e ne registra i trend in crescita.
Quanto all’origine dei disturbi mentali nei bambini e negli adolescenti, le nuove tecnologie possono certamente contribuire – come ho più volte sottolineato in questo blog, evidenziandone i rischi – ma non può essere ignorata la complessità dei fattori in gioco, di tipo biologico, psicologico, familiare, sociale e culturale: su queste variabili, studiate fin dagli anni ’70, poggia il piano d’azione integrato per la salute mentale 2013-2020 dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Comprehensive Mental Health Action Plan 2013-2020). L’OMS, raccogliendo i risultati della ricerca scientifica, ci mostra come il benessere psicologico degli adolescenti sia oggi profondamente compromesso da incertezza per il futuro, povertà, crisi economica, precarietà lavorativa, insicurezza e paure derivanti dagli attentati terroristici, come pure dalla rivoluzione che negli ultimi anni ha riguardato i modelli familiari e quelli educativi/scolastici. Immaginiamo di possedere una bacchetta magica e di poter eliminare dalle vite dei ragazzi smartphone e similari: siamo proprio sicuri che scomparirebbero anche depressione, ansia, autolesionismo e suicidio?
E qui arriviamo al punto più importante: Twenge interpreta (erroneamente) la correlazione tra uso di nuove tecnologie e disturbi mentali come una relazione di causalità. Una correlazione indica però un’associazione tra due fenomeni, non identifica una causa e dunque non ci dice in che direzione vada letta questa relazione: quindi, se è vero che un maggiore utilizzo degli smartphone può contribuire ad un incremento dei disturbi mentali, è altrettanto valida l’ipotesi opposta, ossia che soggetti con maggiori difficoltà emotive e comportamentali facciano un uso più prolungato e disfunzionale delle nuove tecnologie. Twenge sottolinea distrattamente questo aspetto in un passaggio dell’articolo, salvo poi tornare rapidamente al monito iniziale: gli smartphone stanno uccidendo la generazione iGen.
Non dobbiamo, infine, dimenticare che numerose ricerche dimostrano come lo smartphone e i social abbiano una influenza positiva su molti adolescenti in difficoltà, aiutandoli a sentirsi meno isolati o facilitandoli nelle interazioni sociali (fonte: report Social media, Social life del 2012 pubblicato da Common Sense Media). Andrebbero dunque accolte con scetticismo affermazioni dogmatiche di Twenge quali: “Ogni attività su uno schermo è associata ad una minore felicità, mentre tutte quelle che non prevedono uno schermo sono associate ad una maggiore felicità”.
Twenge ha certamente il merito di sollevare l’attenzione sulle crescenti difficoltà psicologiche degli adolescenti e sulle possibili connessioni con le nuove tecnologie. Identificare, però, nello smartphone la “causa” di queste problematiche è semplicistico e pericoloso. Non solo non aiuta ad identificare quali fattori stiano realmente rendendo gli adolescenti più depressi, e a rimuoverli, ma rischia anche di legittimare atteggiamenti deresponsabilizzanti: nell’attribuire ogni colpa allo smartphone, posso smettere di chiedermi che insegnante o che genitore sono, che esempio sto dando, che scuola e che società voglio per mio figlio, come posso aiutarlo a vivere al meglio, anche le sue vacanze, quando vedo che passa tutto il giorno piegato sul suo smartphone, non cerca l’interazione con i coetanei e non solleva neppure lo sguardo verso il mare.