Gloria Trevisan e Marco Gottardi sono nomi ormai tristemente noti, come pure le loro storie. Bloccati senza via di scampo nel palazzone infuocato di Grenfell, in centro a Londra, sono morti consapevoli di stare per morire. Le loro ultime commoventi parole di disperazione e affetto sono state riprese da tutti i giornali italiani.
Quello che però mi è rimasto più impresso è stato il tono accusatorio dei media nazionali verso il Paese Italia. Il loro ragionamento è: Gloria e Marco sono dovuti andare a Londra per mancanza di opportunità in Italia, quindi l’Italia dovrebbe sentirsi responsabile – se non quasi colpevole secondo i più accaniti – del loro forzato esilio ed, indirettamente, della loro tragica fine.
Sarei potuta essere io…
Come spesso avviene in casi di questo genere, il primo pensiero è per se stessi: sarei potuta essere io. In effetti abito a poco più di un chilometro dal palazzo, e faccio arrampicata in una palestra lì di fronte, che in quell’occasione si è tramutata in primo rifugio delle famiglie sfollate dalla torre. Quello che accomuna me a Gloria e Marco non è solo la coincidenza di vivere nello stesso quartiere di una città altrimenti immensa, nè di avere pressapoco la stessa età, bensì che facciamo tutti tre parte dei “poveri” giovani che sono scappati dall’Italia perchè terra priva di opportunità, e che altrove hanno trovato la terra promessa – ovvero un lavoro.
Scappano o rincorrono? Due modi di interpretare l’emigrazione giovane in UK
Vero, i giovani tra i 18 e i 34 anni sono quelli che emigrano di più: oltre un terzo degli italiani residenti all’estero è in questa fascia d’età, ed è anche quella che ha visto un picco di partenze durante la crisi. Ma non tutti scappano dalla mancanza di opportunità. Alcuni rincorrono il sogno della realizzazione fuori dall’Italia, che è visto come più probabile del successo a casa. Il Rapporto Giovani 2016 ci dice per esempio, che 6 su 10 giovani sono pronti a trasferisi all’estero per il desiderio di realizzarsi. Può sembrare una nuance filosofica, ma la motivazione ‘fuga’ è ben diversa dalla motivazione ‘ricerca’. Insomma, un conto è scappare da un incubo, un conto è rincorrere un sogno. E la volontà di esplorare e di andare là dove c’è più domanda di mercato per le proprie competenze non è equivalente a un esilio, bensì ad un’osmosi potenzialmente sana tra i vari mercati e Paesi europei.
Ben vengano i sensi di colpa, Ma solo se portano al cambiamento
Detto questo, ben vengano i sensi di colpa in Italia sulle mancanza di opportunità per i giovani. E che vengano a tutti. Allo Stato miope nelle politiche previdenziali e lavorative. Alle imprese, che non guardano alla futura classe dirigente, bloccate in dinamiche corporativiste e nepotistiche che impediscono turnover. Alla scuola che non riesce a creare ponti di transizione dal mondo dello studio a quello professionale. Ma che i sensi di colpa vengano anche a quelli che accusano Stato, imprese e scuola come fossero enti terzi. Chi sono lo Stato, le imprese e il sistema scolastico, se non Noi stessi?
In questo Noi includo anche noi giovani. Per evitare che i nostri coetanei o fratelli minori se ne debbano andare all’estero non basta una riforma della legge del lavoro. Come non basta un incentivo fiscale per far tornare quelli che come Gloria, Marco o me hanno trovato una qualche forma di realizzazione all’estero. Va stravolta un’intera mentalità che è tanto sbagliata quanto pervasiva in Italia. Cominciamo noi giovani a farlo, visto che siamo quelli che ne soffriamo maggiormente le conseguenze.