“Era nato la mattina presto, l’11 settembre 1981. Come nel caso di suo fratello, io e Tom avevamo scelto per lui il nome di un poeta, lo scrittore gallese Dylan Thomas”, racconta così Sue Klebold, madre di Dylan, uno dei due adolescenti autori della strage di Columbine. Gli episodi della Columbine hign school hanno concluso la gioventù di un’intera generazione, la generazione X, proiettando la maggior parte di noi lontano, lontanissimo da quei loghi oscuri – dolci e disperati – che solo l’adolescenza sa generare.
Eppure Sue, a distanza di diciassette anni da quell’orrore, ha scritto un libro per noi, “Mio figlio”, la testimonianza di una quotidianità infranta dall’uragano. Terrificante e necessario, il racconto di Sue. Chi lo affronta tenta di comprendere come il male possa trasferirsi dalle radici ai frutti. Spera di individuare errori educativi, di deplorare i silenzi e la disattenzione, di deprecare la famiglia che ha covato e cresciuto colui che, di storia in storia, è omicida, stupratore, terrorista, sadico, bullo.
Ho cercato un motivo per sentirmi migliore di Sue e suo marito Tom, per poterli condannare. Era necessario perché se genitori come quelli sono innocenti, nessuno di noi è al sicuro. Eppure niente di tutto questo è stato possibile.
Sue e Tom sono i miei genitori, sono la mia famiglia. Io sono Tom, sono Sue e quando lei scrive, parlando del figlio assassino e suicida, “gli chiederei di perdonarmi perché non avevo capito quali pensieri lo tormentavano”, penso che la dimenticanza dell’adolescenza sia il principio di ogni incomprensione generazionale, sia l’incomunicabilità terrorizzante che molti genitori conoscono e conosceranno, e che questo semplice e doloroso memoire sia una narrazione universale, dove le vittime sono fatte della stessa materia dei carnefici.
Spogliarsi delle certezze e delle prerogative genitoriali basterà a “prevenire non solo le tragedie, ma anche le sofferenze inconfessate di ogni bambino”?
Sue Klebold, Mio Figlio, Sperling & Kupfer
Sue Klebold è la madre di uno dei due ragazzi che nel 1999 uccisero tredici persone nella Columbine High School, in Colorado, prima di togliersi la vita; una tragedia diventata, negli Usa come in Europa, il simbolo della violenza giovanile. Nei sedici anni successivi si è dedicata a indagare a fondo la storia del figlio e della sua famiglia per cercare di comprendere la relazione fra il disagio psicologico e la violenza. È impegnata in un intenso lavoro a sostegno di organizzazioni caritative e di ricerca sulla salute mentale di bambini e adolescenti. A queste associazioni sono destinati i proventi della vendita del libro.