Al netto dell’acquisto di azalee o di eventuali altri esemplari florovivaistici per finanziare la ricerca scientifica, io la festa della mamma non me la sono mai spiegata. D’altra parte, se avessi pensato che essere mamma fosse solo qualcosa da festeggiare, forse ci avrei pensato prima, molto prima dei miei primi quarant’anni, ad avere Francesco.
Ma da ragazza l’unica idea di maternità che concepivo era quella di figlia, cioè mi è sempre andato bene essere quella che comprava i fiori, li portava alla sua mamma e, insomma, finanziava la ricerca con la paghetta (l’autonomia finanziaria era di là da venire). Perché? Che cosa mi insospettiva del diventare madre? Innanzitutto avere figli è un atto con conseguenze irreversibili. Biologici o adottivi, cambia niente: avrai sempre il tuo cuore che cammina per il mondo (prendo in prestito la famosa frase). E per una come me che, per esempio, è attratta dai tatuaggi ma evita di farseli perché poi non si cancellano – no, davvero bene neanche con il laser -, l’irreversibilità era un dettaglio importante della faccenda.
Poi c’è l’altrettanto celebre questione dei figli-freccia, quella che piace tanto ai social, la frase di Gibran “Voi siete l’arco dal quale, come frecce vive, i vostri figli sono lanciati in avanti”, che in sostanza vuol dire che tu li sfami e li disseti a tue spese, avresti il diritto di sognare che fossero a tua immagine e somiglianza, ma poi in realtà loro sono loro e tu sei tu. Fine della storia. Ecco, per una control-freak come me questo era sufficiente per mettere in discussione la bontà del riprodursi. Peraltro, mi sembra che lo stesso Gibran non sia mai diventato padre, per dire.
E allora come’è? Com’è che a un certo punto, a 40 anni mi sono ritrovata in sala parto, con un affarino di tre chili e mezzo sul petto? L’amore? La persona giusta per fare il papà? La stabilità lavorativa? Un insieme di questi fattori, certo. Ma soprattutto è prevalso il desiderio di compiere un atto che io percepivo di rivoluzione totale: iniziare a scrivere una storia di cui non fossi io la protagonista.
Perché alla fine non si è “mamma” e basta. Si è mamma “di qualcuno”. Quel qualcuno è persona prima, molto prima che una ostetrica gentile te la appoggi sul cuore o che tu, con quello stesso cuore a mille, vada a conoscerlo in un altro paese del mondo. E la scoperta di chi sia quel “qualcuno” avviene giorno per giorno, in un’avventura che nemmeno Verne sarebbe riuscito a immaginare senza averla vissuta. Certo, dove cresce e come cresce, le parole e i gesti di cui quella persona si nutre in famiglia possono fare molto per contribuire a una sua evoluzione più o meno felice. Ma io ricordo come Francesco muoveva i piedi nella mia pancia. Fa come adesso, sei anni e qualcosa dopo, nel suo letto. Così la sua attitudine a studiare gli altri, ce l’aveva già con me, giorni tre, prima di decidere se prendere o no il mio latte (peraltro biologico e gratis).
Io non lo so se sono una mamma-arco, so che lui adesso si porta a spasso il mio cuore. In modo decisamente più irreversibile di un tatuaggio. E va bene così.