La Cassazione dovrà ancora esprimersi. Ma intanto il ministero dell’Istruzione prende atto che i bambini possono portare il pranzo da casa e consumarlo a scuola. In una nota diramata a tutti i direttori degli uffici scolastici regionali a inizio marzo, il Miur dà indicazioni di massima su come gestire la faccenda. Il principio è chiaro: in presenza di alunni che portano il pasto da casa l’indicazione è di “adottare precauzioni analoghe a quelle adottate nell’ipotesi di somministrazione dei pasti speciali”.
Le priorità per la scuola sono due, salute e sicurezza, dunque massima attenzione ad evitare possibili scambi e contaminazioni di cibo. Un approccio un po’ asettico ma comprensibile. Contemporaneamente il Miur ha avviato un tavolo con il ministero della Salute per aggiornare le Linee guida sulla ristorazione scolastica che risalgono al 2010. Si riscrivono – dunque – per dare supporto alle scuole e agli enti locali nell’affrontare il nuovo corso e mettere a punto scelte gestionali e organizzative collegate ai pasti portati da casa.
Fin qui ci siamo. Il caso di Torino, come scritto diverse volte, ha per certi versi scardinato un modello finora più o meno consolidato. Ma la faccenda è tutt’altro che risolta. Anzi, siamo soltanto all’inizio. E chi come me crede che il modello di mensa pubblica vada difeso, credo si auguri che alla fase destruens segua una fase costruens, in cui il modello “colpito” possa rigenerarsi, imparare dagli errori e diventare migliore.
Claudia Paltrinieri, tra le fondatrici di Foodinsider, la sintetizza così: “Il tema della qualità e del costo del pasto a scuola restano centrali per i genitori, ma le strade finora percorse sono diverse. Tra il movimento Caro mensa di Torino e il nostro ci sono molte affinità ma abbiamo obiettivi diversi, per loro probabilmente ottenere il riconoscimento del pasto casalingo a scuola era l’obiettivo, a fronte di un costo mensa insostenibile e irremovibile, per noi potrebbe essere uno strumento per migliorare la mensa: là dove i genitori diventano una sorta di ‘concorrenza’ saranno di stimolo a ridurre costi del pasto e a migliorare la qualità dei piatti affinché tornino ad essere attratti dal servizio di refezione scolastica”.
Da due anni genitori ed esperti collaborano nella piattaforma Foodinsider, si sono “inventati” il rating della mensa basato su un sistema di monitoraggio (questionario sviluppato da Benedetta Chiavegatti e Giovanetti Gisella dell’ATS Milano Metropolitana) che dà vita ad una classifica delle mense e che, arrivato alla sua seconda edizione, dà conto della qualità dei menu scolastici in una cinquantina di comuni. E raccolgono best practice in tutta Italia. Uno strumento utile per raccontare percorsi di cambiamento spesso radicali, che maturano all’interno delle istituzioni scolastiche, e che fanno fare davvero un salto di qualità.
A Perugia, ad esempio, sono i genitori a fare da “driver” per il cambiamento, creando menù bilanciati, lo yogurt bianco e la frutta come meranda, meno insaccati e carne, oppure Mantova, dove è la stessa Asl a redigere i capitolati, con ricette – ad esempio per le torte, buonissime, senza zucchero – e manuali d’uso, o ancora Cremona, dove la “testa d’ariete” è la dietista che in questi anni ha introdotto cibi integrali e focaccia semi-integrale accompagnata dalla crema di ceci.
Il punto comune in tutte queste esperienze è di provare a costruire un modello di mensa scolastica che inverta la tendenza caratteristica delle principali città italiane: un modello di industrializzazione nel processo di preparazione dei cibi, con pochi centri di cottura dove i pasti vengono preparati e poi veicolati alle scuole. “Secondo i nostri dati Torino ha 5 centri di cottura su circa 25mila pasti, Bologna ne ha tre su 20mila, a Milano ce ne sono 25 con l’aggiunta di un mega centro cucina industriale dove si concentra la produzione dei piatti processati veicolati a tutte le scuole milanesi” raccontano i genitori di Foodinsider. Un modello che probabilmente non garantisce piatti gustosi né tantomeno abbatte i costi.
“Ci sono strade alternative da percorrere per costruire modalità nuove e ricostruire un rapporto di fiducia tra famiglie e scuola per non arrivare a rotture definitive, che rischiano di minare alle fondamenta il sistema pubblico della mensa scolastica” aggiunge Claudia Paltrinieri. Meglio dunque le città più piccole che le grandi? “Non è detto. Roma per esempio ha un sistema che funziona bene grazie ad un modello misto, per metà centralizzato e per metà in “autogestione”, con una quota importante di scuole che fa le gare d’appalto e crea economie grazie ad esempio ai pasti non consumati, il cui corrispettivo valore economico rimane alla scuola a finanziare attività didattiche. Inoltre Roma ha conservato un numero alto di centri di cottura e quindi mantiene la capacità di elaborare ricette gustose”.