“Da un mercato del lavoro largamente basato su contratti da dipendente a stipendi fissi dobbiamo immaginare un mercato in cui c’è ampia condivisione dei risultati raggiunti: in entrambe le direzioni, condividendo quindi il rischio di impresa e i successi di impresa”.
Così Luca Foresti, in un suo post su Econopoly, scrivendo di imprenditorialità, mi fa riflettere e mi porta a ripercorrerne il contenuto con sguardo di genere. Mi domando se questo cambiamento, per molti aspetti auspicabile, avrebbe lo stesso impatto sulla componente maschile e su quella femminile dell’occupazione.
I dati sull’occupazione per posizione nella professione mostrano che le donne sono attualmente poche nell’occupazione indipendente (imprenditori e liberi professionisti), e tante nel lavoro dipendente. Ad esempio, le donne rappresentano il 45% degli occupati dipendenti, ma sono solo il 31% degli occupati indipendenti. Anche considerando il solo settore dei servizi, dove le donne sono particolarmente numerose, si registra una presenza femminile pari al 53% nel lavoro dipendente, ma solo del 37% nel lavoro indipendente. E tra i laureati la situazione non cambia: la quota femminile è pari al 57% nel lavoro dipendente, ma cala al 44% nel lavoro indipendente.
In classe:
«Prof, ma se le donne si sentono così tanto discriminate dai datori di lavoro, allora perché non provano a mettersi in proprio, così nessuno le discrimina e ci fanno vedere quanto sono brave!»
«Sicuro, ci provano, ma le donne che scelgono il lavoro in proprio invece del lavoro subordinato passano da Scilla a Cariddi … dalla padella alla brace … Evitano i pregiudizi e gli stereotipi dei datori, ma devono affrontare quelli delle banche, dei clienti, dei fornitori, ecc…»
L’ultimo Rapporto Unioncamere Impresa In Genere mostra infatti che il 65% delle nuove imprese nate tra il 2010 e il 2015 è gestito da donne, ma un recente studio condotto da Confesercenti mostra che le imprese femminili hanno un’esistenza più breve e fanno un minor ricorso al credito rispetto a quelle maschili. In particolare, la difficoltà di accesso al credito è sottolineata dal 22% delle imprenditrici intervistate, a conferma di quanto riportato da Lotti, Alesina e Mistrulli (2008). Questi autori si domandano se le donne debbano pagare più degli uomini per avere credito dalle banche, e la loro risposta è semplicemente “sì”. L’indagine di Confesercenti rileva inoltre che 9 imprenditrici su 10 ritengono di essere state oggetto di discriminazioni, confermando anche in questo caso quanto emerso in letteratura. Barbara Orser, una delle 100 donne più influenti del Canada, ha da poco pubblicato per la Stanford University Press i risultati di quattro decadi di ricerche che mostrano come le imprenditrici che esportano non si sentano “prese sul serio”, percepiscano una mancanza di rispetto da parte dei colleghi stranieri, incontrino interlocutori che apertamente rifiutano di “avere a che fare con una donna”, si comportano irrispettosamente nei loro confronti, chiedono che un uomo confermi le decisioni prese, mettono in dubbio che una donna possa essere proprietaria della sua impresa, e così via.
La sottovalutazione delle imprenditrici non è dovuta tanto alle loro caratteristiche personali quanto al pregiudizio di genere che le penalizza nella valutazione delle loro capacità imprenditoriali. Lo prova, ad esempio, l’esperimento condotto recentemente da Sarah Thebaud (2015) per dimostrare la disparità di valutazione tra due progetti, uguali in tutto e per tutto, tranne che per il genere della persona a cui sono attribuiti (casualmente). Quando i progetti sono associati ad un nome di donna la competenza, l’abilità e l’impegno della persona che ne è titolare sono valutati in modo peggiore, e la potenziale redditività del business è giudicata inferiore, rispetto al caso in cui gli stessi progetti sono associati ad un titolare di genere maschile.
Pertanto, prese come sono tra Scilla e Cariddi, le donne in cerca di lavoro potrebbero vedere qualche analogia tra l’invito a mettersi in proprio e il suggerimento attribuito a Maria Antonietta per la fame dei parigini …
“Se non hanno pane, che mangino brioches”