Parlare di industria 4.0 a una platea di imprenditori significa mettere in conto diverse reazioni. C’è chi la coglie come una opportunità. Chi ha compreso che oggi, per l’Italia, rappresenta una vera e propria necessità. Chi ha già intrapreso un percorso di automatizzazione e interconnessione della produzione industriale, che magari è coinciso con il passaggio generazionale. E poi sì, c’è anche chi in qualche modo resiste al cambiamento, ed è soprattutto a questi ultimi che è rivolta una capillare attività di comunicazione per aumentare il livello di consapevolezza delle trasformazioni con cui oggi è inevitabile confrontarsi se si vuole rimanere competitivi.
Che per il nostro Paese la quarta rivoluzione industriale rappresenti una necessità ancor più che un’opportunità lo dicono i numeri: dall’avvento di Internet, l’export della Germania è cresciuto oltre il 200%, il nostro del 50%. Ma quello che vale per tutti i Paesi europei, che per molti versi ci stanno davanti per la capacità di fare sistema tra istituzioni, imprese, formazione e università, vale a maggior ragione per l’Italia. Siamo noi, con la nostra inarrivabile “intelligenza tattile” o, per dirla con le parole del ministro Poletti, “intelligenza nei polpastrelli”, quelli del saper fare, ad avere tutto da guadagnare nell’abbracciare l’innovazione. Perché? Innanzitutto perché la quarta rivoluzione industriale è una leva fondamentale per l’internazionalizzazione delle imprese e per l’occupazione, soprattutto quella giovanile. Come del resto hanno ben compreso anche gli industriali italiani, da una ricerca presentata all’incontro di Davos.
Che cosa fare allora? C’è un tema di visione imprenditoriale, innanzitutto. Uno degli effetti della crisi è stato quello di frenare gli investimenti, soprattutto le piccole e medie imprese si sono concentrate sulla riduzione dei costi. E questo ha limitato lo sguardo sul futuro. E poi c’è il grande tema della formazione, che riguarda i giovani, ma non solo. Perché deve essere chiaro a tutti che Industria 4.0 non è solo digitalizzazione o informatizzazione, ma è davvero una rivoluzione profonda, che impatta su che cosa si produce e su come. Che comporta anche dei rischi. Per esempio, ci saranno nuove figure professionali ma altre spariranno. Il personale andrà riqualificato, come in una vera e propria riconversione industriale qual è questa, ancora all’inizio.
Per dare una risposta concreta a queste sfide, esiste il piano Industria 4.0 varato dal governo con la manovra finanziaria e già operativo dal primo gennaio scorso. Per la trasformazione tecnologica e digitale delle aziende sono previsti nella legge di Bilancio diversi incentivi fiscali con l’iper-ammortamento al 250% e nessuna procedura complessa a bando. C’è poi il sostegno alle startup e alle pmi innovative. Per quanto riguarda invece il capitolo occupazione, da quest’anno, è in vigore la decontribuzione per le nuove assunzioni con contratto di lavoro a tempo indeterminato, ma anche di apprendistato, per i giovani che abbiano svolto con lo stesso datore percorsi di alternanza scuola-lavoro o periodi di apprendistato durante il percorso di studi, quindi della formazione vera. Perché ogni volta che parliamo con un ragazzo o una ragazza che torna dall’estero per reinvestire in Italia quello che ha imparato o incontriamo un imprenditore o un’imprenditrice ultrasettantenne che ha avuto il coraggio di innovare e contemporaneamente passare il testimone, sappiamo che è a loro che dobbiamo risposte concrete. Ed è nel futuro delle persone che trova senso ogni giornata in cui ti chiedi chi te lo faccia fare di praticare la politica, nel senso più nobile del termine.