In moltissimi la ammiravano, la imitavano, la ascoltavano. Come dimostra anche il “Blog del direttore di Vogue Italia”, il blog di Franca Sozzani, scomparsa oggi a soli 66 anni dopo un anno in cui la malattia l’aveva consumata, ma che non le ha impedito di lavorare fino al giorno prima di morire e il numero di gennaio del mensile sarà forse il suo vero testamento.
In moltissimi la ammiravano, dicevamo. Ma tanti altri la invidiavano e criticavano, raramente in pubblico, secondo un copione tristemente italico. Non a casa era chiamata la zarina della moda italiana, una definizione ambigua, un complimento solo a metà. Perché molti in fondo mal digerivano la sua longevità come direttore di Vogue (lo era dal 1988), la sua centralità per l’intero fashion system italiano, i suoi rapporti con istituzioni locali e nazionali, gli innumerevoli premi ricevuti in tutto il mondo, il suo impegno nel sociale (dal 2011 era Goodwill Ambassador dell’Onu), il suo ruolo nella promozione di giovani talenti e, last but not least, l’influenza che ha avuto sulla società italiana, pubblicando numeri di Vogue dedicati alla discriminazione razziale, alla violenza domestica, agli eccessi della chirurgia plastica, ai falsi ideali di bellezza femminile.
Franca Sozzani aveva sicuramente le sue insicurezze, i suoi momenti di incertezza, le sue fragilità. Ma traeva grande forza dal fare le cose seriamente e dalla sua lucidità critica, nonché dall’imporre prima di tutto a se stessa una logica meritocratica che usava anche per tutti i suoi collaboratori. A Franca Sozzani veniva sempre riservato un posto in prima fila alle sfilate di Milano, Parigi, New York e Londra, e sempre nella parte centrale della passerelle, la più nobile. A una giornalista che le chiedeva: “E quando le daranno un posto in seconda fila?”, rispose con calma olimpica e un mezzo sorriso: “Capirò che è finita”. Quel giorno non è mai arrivato, alle prossime sfilate di gennaio e febbraio Franca Sozzani sarebbe stato al suo solito posto.
Facile immaginare le lodi postume che le verranno tributate, ma a me resta il dubbio: perché, specie noi donne, non perdoniamo il successo altrui?